La tragedia di Gaza non è finita. È questa la frase che rimbalza più spesso, quasi come un monito, tra le pareti di Spazio Grisù, dove venerdì sera il pubblico si è raccolto per una serata che ha il sapore dell’urgenza. Urgenza di capire, ascoltare, di non voltare lo sguardo altrove. A organizzare l’incontro è Sanitari per Gaza – Ferrara, che ha voluto portare in città la voce di chi quella tragedia l’ha attraversata in prima persona: il medico rianimatore Filippo Pelagatti, tornato da una missione con Emergency all’ospedale Nasser di Khan Younis, bombardato dalle forze israeliane mentre lui era a lavoro in terapia intensiva.
Prima della proiezione del docufilm “Gaza: Doctors under attack”, la sezione ferrarese dell’associazione ha ricordato come la crisi sanitaria a Gaza si trascini da anni e come, dopo gli accordi di “pace”, molte strutture mediche continuino ad essere inagibili, svuotate, inutilizzabili. Sullo schermo scorrono immagini dure, molte delle quali (probabilmente) la maggior parte dei presenti aveva già visto sui social: sale operatorie devastate, ambulanze centrate dai droni – “motivo di vanto per Israele”, questa precisione, sottolinea Pelagatti lungo il suo intervento -, operatori sanitari in affanno, bambini mutilati. Un documentario che la Bbc ha ritenuto “poco imparziale”, come ricorda la giornalista Camilla Ghedini, mentre legge le parole di un articolo del Guardian: “Abbiamo il dovere di non distogliere lo sguardo”. In sala Macchine, nessuno lo distoglie.
Poi è il momento di Pelagatti. Quando inizia a parlare lo fa con una calma che contrasta con ciò che racconta. È arrivato nella Striscia durante il periodo di tregua, a fine febbraio di quest’anno. Riprendono i bombardamenti, le notti rotte dalle esplosioni, il rumore costante dei droni. Ma soprattutto tre odori: “Sangue, benzina e olio di mais”, dice. L’odore del sangue p quello delle sale operatorie, che non riesce a togliersi di dosso. Quello di fritto, un fritto che all’inizio crede essere cibo, ma che scopre provenire dagli scarichi dei mezzi: “Non c’era più gasolio, usavano l’olio di semi. Perfino i motorini”. L’odore di benzina, invece, è quello del giorno in cui il Nasser viene colpito da un drone. “Un’esplosione piccola, estremamente precisa. Due sale operatorie distrutte”.
Il racconto procede come se Pelagatti stesse ancora camminando tra i corridoi dell’ospedale. Racconta del persona che lavora senza stipendio dal 2023, dei medici che ogni giorni percorrono chilometri per raggiungere un ospedale che forse non troveranno più intatto. Racconta soprattutto di un collega: “Quando l’ho conosciuto era stato liberato da due giorni, dopo otto mesi nelle carceri israeliane. Bendato, ammanettato. Aveva ancora i segni ai polsi. E lavorava già. Io non credo che ci sarei riuscito”.
Tra la folta platea qualcuno si commuove, altri abbassano gli occhi. Pelagatti, invece, non cerca pietà. Cerca attenzione. “Tutto quello che dovevamo vedere lo abbiamo visto”, dice. Ed è forse la frase più semplice e difficile della serata. “Il problema è fare in modo che conti. Che non cada il silenzio”.
La giornalista Ghedini glielo chiede apertamente: cosa manca, cosa dovremmo ancora sapere? Pelagatti risponde senza esitazioni: “Niente. Le immagini sono sotto i nostri occhi. Quello che manca è la consapevolezza che possiamo fare qualcosa: far valere il diritto internazionale, pretendere che venga applicato”. Poi racconta dei messaggi dei colleghi rimasti nella Striscia: “Madri che sperano che i figli risultino malnutriti, così da poter accedere a una razione alimentare”. È un’immagine che sospende la sala.
La serata si chiude con domande, ringraziamenti, volti tesi. Nessuno esce come è entrato. A Ferrara torna a risuonare un promemoria collettivo: la tragedia non è finita e l’attenzione non può finire con essa.
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