“Tutte bufale“. Dopo Elisabetta Zani, anche il 67enne Ido Bezzi, attuale presidente della cooperativa agricola del Bidente, ha respinto le accuse per cui – insieme ad altri cinque imputati – è finito alla sbarra nel processo per il presunto caso di sfruttamento di manodopera di lavoratori stranieri durante le operazioni di bonifica dal focolaio di aviaria all’Eurovo di Codigoro, iniziate il 5 ottobre 2018 con l’abbattimento e il successivo smaltimento di circa 8.500 polli che avevano contratto la malattia.
Una malattia “particolarmente virulenta che poteva intaccare l’intera zona e per cui quindi era stato necessario intervenire nel più breve tempo possibile” ha spiegato ieri (12 novembre) mattina in aula Bezzi, che all’epoca dei fatti era dipendente della cooperativa, inquadrato come responsabile sicurezza e referente per le malattie infettive. “Fu un intervento con enormi difficoltà” ha proseguito l’uomo, soprattutto per le dimensioni dello stabilimento, “uno dei più grandi a livello europeo”.
Così tante difficoltà che fu necessario un implemento di personale. “La forza lavoro della coop Bidente prevedeva da contratto un centinaio di lavoratori, ma per quel tipo di intervento non bastavano, tanto che alla fine ne usammo circa 350-400, ricorrendo a tre aziende che ci avevano già aiutato in passato e non ci avevano dato alcun tipo di problema” ha aggiunto. Si tratta delle cooperative Agritalia, Veneto Service e Work Alliance a cui, secondo la Procura, la coop Bidente avrebbe subappaltato i lavori senza però aver mai chiesto né ottenuto l’autorizzazione dell’Ausl, come invece previsto dalla legge. La cooperativa forlivese infatti, per l’accusa, avrebbe ottenuto un appalto da cinque milioni, ma allo stesso tempo avrebbe poi concesso in subappalto i lavori in maniera indebita, secondo gli inquirenti.
“Noi, nella nostra relazione di progetto, avevamo menzionato il subappalto” ha voluto precisare Bezzi. Tuttavia – è questa la giustificazione – “in un cantiere così grande, da completare in pochi giorni, comunicammo solo verbalmente che insieme a noi si aggiungevano altre ditte”. “Aumentammo il personale – ha successivamente ricordato – in base al tipo di lavoro e facemmo anche turni di ventiquattro ore su ventiquattro per riuscire a eradicare il prima possibile quel virus“.
Tra le contestazioni che la Procura oggi avanza anche quella relativa all’approvvigionamento e la fornitura dei dispositivi di protezione individuale che i lavoratori impegnati nelle operazioni di bonifica avrebbero dovuto utilizzare durante le operazioni di cantiere. A tal proposito, nelle precedenti udienze, sentiti come testimoni, alcuni degli operai avevano denunciato in aula le precarie condizioni igienico-sanitarie in cui erano costretti a lavorare per dpi scarsi o mancanti.
“Fornimmo stivali riutilizzabili, guanti riutilizzabili, occhiali, caschi respiratori e tute bianche che invece non erano riutilizzabili ma che, anzi, andavano sempre distrutte prima di uscire dallo stabilimento” ha specificato Bezzi. Su questo punto ha poi aggiunto: “Qualsiasi tuta, anche se tecnicamente riutilizzabile, non venne mai usata due volte. Tanto che, al momento del cambio, era impossibile indossare la tuta del turno precedente”. Questo perché, una volta terminato il turno, tutti i dispositivi di protezione individuale – mascherine, guanti e tute – venivano “disinfettati tramite lavaggio” e poi “messi in sacchi neri chiusi, sigillati e buttati in un contenitore a tenuta stagna presente all’interno del cantiere; a fine ciclo, venivano smaltiti e distrutti tramite termodistruzione“.
Quanto alla presunta mancanza di scorte, Bezzi ha spiegato che la riserva tecnica era di “circa 5mila tute”, sottolineando che il sistema di approvvigionamento “non poteva mai scendere”. “Nel magazzino c’erano dpi sufficienti per una settimana di lavoro per trecento persone. Questa era la regola, perché non potevamo fermare il cantiere per mancanza di tute o mascherine. Il cantiere doveva essere sempre rifornito, in modo da garantire almeno sette giorni di attività continuativa”. “Le testimonianze dei lavoratori – ha poi tuonato, interrogato sulla veridicità dei racconti degli operai ascoltati precedentemente – sono tutte false e personalmente sono disposto a incontrare queste persone e a smentirle sul fatto”.
Precisando che il proprio ruolo era quello di responsabile del cantiere, senza però aver alcun potere sui dipendenti esterni, Bezzi ha inoltre spiegato che la cooperativa del Bidente aveva fornito alle altre tre aziende un opuscolo dedicato alla formazione degli operai che sarebbero dovuti entrare nello stabilimento. “Un libricino molto sintetico, scritto in italiano” ha ricordato, respingendo le accuse di chi ora gli contesta la mancata formazione del personale. Alla cooperativa, infatti, “non spettava l’obbligo di formare le squadre esterne, ma solo quello di fornire un’adeguata informazione” ha fatto sapere. “Ma all’interno del cantiere – ha ribadito l’imputato – sono state comunque rispettate tutte le norme di igiene e sicurezza“.
L’accusa più grave – come anticipato – resta comunque quella di intermediazione illecita e sfruttamento della manodopera straniera, addirittura – secondo gli inquirenti – attraverso minacce di licenziamento e mancato pagamento delle retribuzioni. Se su quest’ultimo punto Bezzi parla di una “bufala“, diverso è invece il significato del prima contestazione: “Fu il veterinario a dirmi telefonicamente che, se non avessero utilizzato correttamente tutti i dispositivi di protezione individuale, i lavoratori avrebbero dovuto essere sospesi e allontanati dalla struttura“.
Poi, proprio a proposito dei pagamenti, Bezzi ha chiuso dicendo che “quando, come responsabili, effettuammo i controlli in cantiere prima dei pagamenti, ci accorgemmo – a lavori ultimati – che alcune assunzioni non coincidevano col personale che ci era stato fornito inizialmente dalle tre aziende. Abbiamo quindi deciso innanzitutto di sospendere i pagamenti. Successivamente continuammo a richiedere la documentazione necessaria via mail, arrivando anche a minacciare di segnalare la situazione all’Ispettorato del Lavoro”. Provvedimento che alla fine non è mai stato preso.
L’inchiesta – lo ricordiamo – prese le mosse dall’incidente avvenuto lungo l’autostrada A13, nella notte tra il 25 e il 26 novembre 2017, quando un furgone su cui viaggiavano dodici cittadini di nazionalità straniera, di ritorno dall’impianto Eurovo di Codigoro, si ribaltò. Nello schianto perse la vita il 62enne marocchino Lahmar El Hassan, autista del veicolo, residente in provincia di Verona. Da lì, l’avvio delle indagini della Procura di Ferrara fino alla scoperta di un presunto caso di caporalato nel Basso Ferrarese.
Oltre alla 56enne Zani, a Bezzi e al 48enne Gimmi Ravaglia (all’epoca dei fatti vicepresidente) della Cooperativa Agricola del Bidente, a processo ci sono anche il 60enne Abderrahim El Absy della Coop Work Alliance di Cesena, il 63enne Ahmed El Alami della Coop Agritalia di Verona e il 59enne Lahcen Fanane della Coop Veneto Service di San Bonifacio, in provincia di Verona.
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