di Monica Farnetti*
Certo per concepire una città alla stregua del proprio cortile di casa, e inchiavardarne gli ingressi per custodirvi dei musicisti come se fossero polli, ci voleva un bel coraggio. E se non sarà stato facile per loro, i musicisti, esibirsi così recintati, reclusi proprio nello spazio – la strada – eletto come simbolo della propria libertà, non è stato facile nemmeno per le persone che non rientravano nel novero di essi o dei loro spettatori. Persone le quali, ovunque fossero dirette, si vedevano a gruppi o in processione tornare ripetutamente sui propri passi, ritrovandosi sempre al punto di partenza mentre la meta rimaneva lontana, a causa dei continui sbarramenti in cui si imbattevano, anche perché non preavvisate da un’apposita segnaletica.
Senza distinzioni di sorta – fossero giovani o anziane, a piedi o in sedia a rotelle, residenti o in visita, in viaggio per lavoro o per diletto, sole o accompagnate da cuccioli d’uomo o di animale –, le persone si incolonnavano e marciavano ligie e rassegnate, scambiandosi informazioni, scommesse e speranze sull’esistenza o meno di un prossimo varco. E predisponendosi a percorsi (obbligati) che facilmente potevano far loro perdere la posizione guadagnata, con buona pace di chi o di ciò che le attendeva al di là dell’inaccessibile e imperscrutabile centro storico. Insomma un grande gioco dell’oca, regolato da adolescenti in tenuta gialla e da palestrati in tenuta nera che disciplinavano, in modo più o meno persuasivo, i nostri passi intra moenia.
Il sindaco, gli dèi non gliene vogliano, ha peraltro saputo con questa manovra, oltre che alterare la generale atmosfera di fine agosto, e acuire per alcuni la proverbiale fatica del rientro dalle ferie, evocare la drammatica atmosfera del lock-down, allorché tanti omoni sempre in nero, spesso rasati e ancor più spesso tatuati dirigevano, a loro discrezione, i nostri percorsi emotivi oltre che fisici. E per contro il medesimo sindaco ha tentato di farci dimenticare i venticinque secoli di storia della città – “città” intesa come istituzione – nel corso della quale solo in circostanze molto gravi, e in stati di estrema emergenza, essa ha perduto la sua dimensione costitutiva, che è quella dell’apertura al ‘pubblico’ di coloro che la compongono e a cui essa deve, fino a prova contraria, la propria esistenza.
Privatizzare la cosa pubblica come se niente fosse; imporre a chi risiede nella zona proibita di esibire il proprio documento di identità a gente in nessun modo legittimata a richiederlo, e di accettare il sopruso pur di rientrare a casa propria; mettere a repentaglio non si dice la quiete, e neppure al limite la libertà di movimento, della cittadinanza senza biglietto ma, quanto meno, il suo diritto a non soccombere alla fatica di muoversi per le vie cittadine con le temperature di fine agosto e le pene di fine estate; presumere infine che questo significhi dare visibilità al proprio potere, scaraventando dalle stelle alle stalle (o ai pollai) la lezione sontuosa se pur inquietante dei principi del Rinascimento, tutto ciò significa rischiare grosso. Perché gli dèi non apprezzano l’arroganza dei mortali, e per quanto capricciosi essi siano hanno a cuore un minimo di giustizia e di decoro. E questa amministrazione in tal senso non li ha soccorsi.
Fossero nati principi, questi amministratori avrebbero forse saputo inventare una Ferrara nuova e, ciò nondimeno, degna dell’antica, e l’avrebbero riempita – inchiavardata o meno – di quanto di meglio e di squisito il mondo può offrire. Ma principi non sono, e Ferrara l’hanno semplicemente ereditata. A buon diritto, certo, stante che sono stati eletti; ma ciò non significa necessariamente che sappiano gestire questa impegnativa eredità, di cui anche i più grandi ingegni nel corso della storia si sono sentiti talvolta immeritevoli, con l’intelligenza, la decenza e lo splendore adeguati. Ché di certo non equivalgono ai banchetti ducali i cibi delle bancarelle loro succedanee, né alla passione estense per i codici antichi l’attuale noncuranza delle biblioteche, né alla presenza a corte dei migliori musici d’Europa gli oramai esausti, dopo trentasette anni di fatiche, musicisti di strada. Definizione questa, si rileverà, quantomai azzeccata soprattutto quest’anno, quando per dare la strada a loro, e permettere che salvaguardassero la propria identità, la strada l’hanno tolta a noi.
Un tempo tutte le strade portavano a Roma, o almeno così si diceva. Certo in questi giorni qui non era così. Tutte le strade portavano, piuttosto, a un cul-de-sac, dove occorreva fare dietro-front e ripartire alla ricerca di un cammino possibile. Costeggiando transenne, sipari, paraventi e finte pareti (esemplari i box in cerata nera dentro cui erano rinchiusi i tavolini di alcuni bar) che ci ricordavano che se non eravamo buskers, o non pagavamo un pedaggio (da intendersi quantomai alla lettera), eravamo “fuori”. Fuori dal gioco (dell’oca), fuori strada (questo di sicuro), fuori tempo massimo (non sapevamo che dalle 19 in poi in centro non si passava?), fuori combattimento (per lo sfinimento che tutto questo comportava) e fra un po’, e per gli stessi motivi, anche fuori di senno. Fuori soprattutto, e paradossalmente, dalla nostra stessa città.
Forse, dopo tutto, aveva ragione Virginia Woolf (“Come donna, non ho patria, come donna la mia patria è il mondo”), o addirittura Anna Maria Ortese (“La mia patria è la Via Lattea”), due scrittrici stanche di misurarsi con la dimensione contingente del loro vivere e desiderose di dare ad essa un respiro diverso, sebbene Londra per l’una e Napoli per l’altra non abbiano mai cessato di rappresentare il mondo o l’universo intero. Ciò che accade in fondo anche a molti/e di noi: vivere col desiderio e il diritto di una cittadinanza garantita a tutti gli effetti, che nessun festival e nessun sindaco possano scalfire, e sulla quale fondare il nostro divenire cittadini/e della terra e della galassia che la ospita. Là dove, fra le altre cose, pare che la musica che si ascolta sia ad accesso libero, lo spazio in cui si suona non conosca sbarramenti e sia possibile, per chiunque lo voglia, rinunciare ai concerti senza che gli sia imposto, per questo, il divieto d’accesso allo spazio che abita.
*scrittrice, docente di letteratura italiana all’Università di Sassari
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