Con la scomparsa di Padre Fedele Bisceglia, il frate ultrà del Cosenza Calcio, morto ieri (13 agosto) a 87 anni dopo una lunga malattia, Donata Bergamini non perde solo un amico, ma anche una spalla preziosa nella battaglia per trovare verità dopo l’uccisione del fratello, avvenuta il 18 novembre 1989 a Roseto Capo Spulico. Il monaco cosentino fu al fianco della famiglia di Denis Bergamini fin dal primo giorno, celebrando i funerali e condividendo dubbi e sospetti sulle versioni ufficiali. Non si fermò alle parole: compì sopralluoghi, fece rilievi e mantenne negli anni un legame di vicinanza costante con la famiglia fino alla condanna – in primo grado – di Isabella Internò a sedici anni da parte della Corte d’Assise del tribunale di Cosenza.
Donata, con la morte di Padre Fedele, se ne va uno dei personaggi chiave nella vicenda di Denis.
“Per noi, Padre Fedele ha avuto un ruolo importante fin dal giorno della morte di Denis. Celebrò il funerale a Cosenza e poi quello a Boccaleone. E poi era con noi quella notte quando, rientrando ad Argenta, in autogrill, durante il Processo del Lunedì, vedemmo per la prima volta le immagini del luogo in cui era stato trovato il corpo di Denis. Chiese a mio padre se ci avessero restituito i vestiti di mio fratello, che non ci avevano dato, e ci disse che sarebbero serviti perché, come noi, aveva capito che la realtà era diversa da come ce l’avevano raccontata. Ma fece anche altro”.
Racconti.
“Qualche tempo più tardi, insieme al geometra Piero Romeo e a un altro gruppo di ragazzi, andò sul luogo del fatto e fece alcune rilevazioni per ricostruire la dinamica di quanto accaduto. Ricordo che realizzò una piantina che poi noi presentammo alle autorità competenti”.
Quale rapporto vi legava?
“Durante questi anni abbiamo avuto molti contatti telefonici. Poi parecchie volte è venuto ad Argenta, a Boccaleone, a fare un saluto a Denis. C’era un rapporto di amicizia. Noi come famiglia partecipammo a una donazione per il lebbrosario che aprì in Africa. Insomma, avevamo un rapporto che andava ben oltre a quello che poteva essere un rapporto comune. Non è mai mancato a un’iniziativa e, anche quando non ce la faceva più, chiamava qualcuno che lo aiutasse e lo accompagnasse alle manifestazioni e alle udienze del processo”.
Quando è stata l’ultima volta che vi siete visti?
“Pubblicamente lo scorso 1° ottobre, quando il tribunale di Cosenza ha condannato Isabella Internò a sedici anni. Padre Fedele era presente, ci siamo abbracciati e se oggi ripenso a quel momento, mi commuovo. Poi, a giugno di quest’anno, sono scesa a Cosenza. Lui era già ricoverato in ospedale e sono andata a trovarlo. Anche se non parlava quasi più, mi sorrideva. Trovava il modo di scherzare. Lì però ho capito che purtroppo la malattia di cui soffriva non gli avrebbe lasciato tanto tempo ancora”.
Come lo ricorda?
“La prima volta che l’ho conosciuto, lo vidi in piedi, attaccato a un palo dello stadio San Vito di Cosenza, mentre sventolava una bandiera rossoblù e lanciava i cori circondato da tantissimi ragazzi. Ho il ricordo di un uomo che ha aiutato tante persone. Che ha tolto molti ragazzi dalla strada, che ha aiutato molte donne e che ha avuto un rispetto immenso per i deboli, senza distinzioni. Anche lui, accusato ingiustamente (di aver stuprato un suora, ndr) e poi assolto con formula piena, ha dovuto vivere un calvario giudiziario. Dopo l’assoluzione chiese di poter tornare a dire la messa, ma la Chiesa non glielo concesse mai. Oggi, pensare che se n’è andato senza aver realizzato quel desiderio, fa rabbia. È stato un atto brutto”.
Tra qualche mese si torna in aula per il processo d’Appello, mentre una nuova inchiesta sta nascendo per trovare gli esecutori materiali.
“Dopo trentacinque anni, mi aspetto solo che chiunque abbia sbagliato venga punito. Il tempo che è passato, non è passato per colpa nostra, ma per una marea di problematiche su cui non voglio sindacare. Noi le cose le abbiamo subito messe in evidenza, mio padre fu il primo a dire che Denis non si era ucciso. L’unico rilievo che voglio fare è che se allora avessi avuto gli stessi pm che hanno preso in mano le indagini dal 2015, vale a dire il pm Eugenio Facciolla e il pm Luca Primicerio, oltre che la Procura di Castrovillari, indubbiamente i trentacinque anni non sarebbero passati. Sono incappata in una giustizia malata”.
Un auspicio?
“Se si è proseguito e si è arrivati fino a questo punto, credo che si arriverà anche oltre. Il merito più grande va ai miei avvocati, a Fabio Anselmo, Alessandra Pisa e Silvia Galeone. È stato un processo pesante sotto l’aspetto psicologico e fisico. Sono rimasta soddisfatta perché durante il processo sono emerse vicissitudini di cui non ne ero conoscenza, che mi hanno permesso di ampliare la rete. Una rete che adesso spero non venga chiusa. Di certo, io non mollo proprio ora”.
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