Attualità
2 Agosto 2025
Non è stato possibile realizzarla con il giudice Francesco Caruso, presidente della Corte d'Assise di primo grado del quinto processo sulla strage

Storia di un’intervista mancata (rimandata a tempi migliori)

di Redazione | 6 min

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Il giudice Caruso: "Ho letto la rassegna stampa di questi giorni e vedo che il clima politico si sta surriscaldando. In queste condizioni non posso rilasciare interviste e unirmi alle tante voci che si sovrastano, con toni sempre più alti"

di Daniele Predieri

Doveva essere un’intervista. Lunga e articolata, con domande “complicate e difficili” sulla storia giudiziaria della strage di Bologna, avvenuta il 2 agosto del 1980, 85 morti e più di 200 feriti (cinque le vittime ferraresi).

Non è stato possibile realizzarla con il giudice Francesco Caruso, in pensione dal 2022, presidente della Corte d’assise di primo grado del quinto processo sulla strage (quello contro Paolo Bellini, altri e i mandanti), perché i tempi non lo consentono: non si può riflettere, oggi, con serenità, neutralità, pacatezza, senza innescare timori, polemiche e tensioni, soprattutto politiche.

La verità sulla strage è stata resa definitiva dalla sentenza della Corte di Cassazione che l’1 luglio scorso, dopo 45 anni, si è pronunciata sulla matrice fascista ed eversiva, sugli autori, depistaggi e mandanti. E lo ha fatto condannando all’ergastolo, tra gli altri, Paolo Bellini, 72enne ex esponente di Avanguardia Nazionale, accusato di concorso nella strage, e ritenuto uno degli esecutori materiali.

“Finalmente da oggi non si può più dire che della strage non si sa niente, adesso si sa tutto. La verità è stata comprovata senza problemi” aveva subito commentato Paolo Bolognesi, presidente dell’associazione dei familiari delle vittime, al centro oggi come ieri di polemiche politiche col governo di centro destra e la premier Meloni sulla matrice fascista della strage. Ma si può affermare oggi che LA verità è stata comprovata senza problemi, visti i tempi?

Sono stati necessari 45 anni, quasi mezzo secolo, per avere LA sentenza definitiva della Cassazione che ha confermato quella di primo grado e di appello. La prima fu decisa, appunto, dalla Corte presieduta dal giudice Francesco Caruso. Sentenza importante, necessaria, perché “punto di arrivo fondamentale” per l’avvocato Andrea Speranzosi, difensore di parte civile per l’associazione delle vittime della Strage di Bologna e per gli enti locali, perché “oggi possiamo dire in maniera definitiva – aveva aggiunto – che sappiamo chi finanziò l’attentato, che quell’attentato si colloca a pieno titolo nella strategia della tensione, sappiamo chi organizzò l’attentato, chi erano i mandanti e sappiamo retroscena importantissimi sull’attività di depistaggio”.

Come accaduto in passato in tantissimi altri processi, le “vittime” costituite parte civile, oggi l’Associazione familiari nel processo alla strage, hanno avuto un ruolo fondamentale. Il pool di legali dell’associazione, ricordiamo ad esempio, aveva fornito ai magistrati il filmato che conferma (inchioda) la presenza di Bellini, la mattina del 2 agosto, alla stazione di Bologna, poi riconosciuto dalla ex moglie, filmato diventato poi una delle prove che hanno permesso di condannarlo come esecutore materiale.

E allora qui come in tantissimi altri processi (uno su tanti il caso Aldrovandi a Ferrara, come lo stesso giudice Caruso aveva scritto nella sentenza di quel processo allora, riconoscendo il ruolo della famiglia e dei legali, l’avvocato Fabio Anselmo su tutti), le parti civili, i familiari delle vittime hanno davvero aiutato i magistrati a fare giustizia. Giustizia che parte dal basso, dal dolore e dalla rabbia, certo. Anche e soprattutto dalla determinazione.

La stessa – rammentiamo a chi legge, distratto in questi anni – che aveva portato la procura generale di Bologna (il capo di allora, Ignazio De Francisci ) ad avocare il processo al suo ufficio, facendo ripartire l’inchiesta per cui la procura ordinaria di Bologna aveva invece chiesto l’archiviazione. Inchiesta portata avanti e fatta crescere negli anni, con nuove accuse sostenute nei processi che seguirono, da magistrati che conosciamo bene: i sostituti procuratori generali ferraresi, Umberto Palma e Nicola Proto, coordinati dall’avvocato generale Alberto Candi. Come conosciamo bene un altro magistrato ferrarese, Domenico Stigliano, estensore della sentenza di appello che confermò quella di primo grado della corte d’assise presieduta da Caruso, sentenze oggi confermate dalla Cassazione.

Tutti magistrati che, un pezzo dopo l’altro, sono riusciti a riscrivere la storia della strage, confermando i legami tra l’eversione terroristica di destra, la strategia stragista, la onnipresente P2 e i servizi segreti deviati. Tesi confermate dalla sentenza Bellini che, come ha commentato pochi giorni fa tranciante il pg di Cassazione, Antonio Balsamo, rappresenta “un passo importante per la piena realizzazione di quel diritto alla verità che spetta non solo alle vittime e alle loro famiglie, ma a tutto il popolo italiano su un fatto che ha rappresentato il più grave atto terroristico della storia della Repubblica Italiana”.

Ma il Popolo italiano – o almeno un pezzo di questo – vuole davvero accettare LA verità? Quel pezzo che si riconosce negli eredi del Msi e in quella parte di governo, chiamati in causa dal presidente Paolo Bolognesi nei giorni scorsi, alla vigilia delle celebrazioni, che ha chiesto conto delle mancate responsabilità politiche di quegli eredi della destra (premier Meloni in primis) e delle protezioni politiche garantite a Bellini e tanti altri terroristi neri coinvolti nella strage del 2 agosto.

Questi sono i tempi, per nulla sereni e pacati, che demandano all’opinione pubblica i giudizi, i commenti, la elaborazione della verità. Come ha sollecitato del resto per la sua città, martirizzata nella strage, il sindaco di Bologna, Matteo Lepore, perché “adesso tocca alla politica e alle istituzioni prendere atto in modo integrale di queste sentenze».

Vorranno farlo, politica e istituzioni?
Intanto in questo paese, a conferma della assoluta mancanza di serenità (sociale, politica, costituzionale, istituzionale) il giudice Caruso viene posto di nuovo sotto tutela (protezione): negli anni scorsi per aver presieduto il processo Aemilia, poi due anni fa per le minacce di Bellini, e oggi dopo la sentenza definitiva di Bellini stesso. E allora, è lecito chiedersi e chiedere a chi sta leggendo, è normale in una democrazia matura, come si direbbe di quella italiana, che un giudice sia sotto tutela per via del suo lavoro?

Lavoro di magistrato, quello di Caruso, sotto i riflettori anche nella nostra città per tanto tempo. Avendo firmato, tra le tante, anche un’altra sentenza storica, quella del processo sulla morte di Federico Aldrovandi. Sentenza che fu, a parere di molti, il solco giudiziario che ha portato in tanti altri casi a ristabilire verità e giustizia in fatti che, prima del luglio 2009 (epoca della sentenza di condanna dei poliziotti per la morte di Aldrovandi), si sarebbero arenati nelle paludi dei depistaggi. Processo, sentenze e parole sui quali, con quella serenità e pacatezza che mancano oggi sul 2 agosto si parlerà il prossimo 20 settembre in un convegno a Ferrara per ricordare i 20 anni dalla morte di Federico Aldrovandi.

Ultimo ma non ultimo, nell’intervista “rimandata” e solo “rinviata” al giudice Caruso, c’era anche un riferimento ad una delle pagine che lui come presidente del tribunale ha firmato, tra le più concrete, ad avviso di chi scrive, nella lotta alla mafia: l’intitolazione di un’aula del tribunale di Ferrara al giudice Rosario Livatino, ucciso in un agguato in Sicilia, il 21 settembre 1990, dopo esser stato braccato in una scarpata a fianco della strada statale Agrigento-Caltanissetta mentre si stava recando in Tribunale a bordo della sua auto e senza scorta. Aveva 37 anni, Livatino e diventò per le cronache il “giudice ragazzino” (fu l’ex presidente Cossiga a dirlo, mortificando servitori dello Stato come Livatino), ma anche e soprattutto una figura di riferimento per l’impegno dei magistrati contro tutte le mafie.

Sulla targa che lo stesso Caruso scoprì nel 2009, in tribunale a Ferrara, è riportato il pensiero di Livatino: “non ci sarà chiesto se siamo stati credenti ma credibili, credo che in un paese come il nostro dare segnali di svolta significhi anche e soprattutto non dimenticare”. E allora, interpretando quelle parole, la sentenza definitiva sulla strage del 2 agosto potrà essere un segnale di svolta?
E moralmente, socialmente, eticamente e politicamente non è sempre più necessario, per tutti, ricordare, come stiamo facendo una della pagine più buie della nostra storia?

Le risposte nella intervista che verrà. Oggi solo rimandata.

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