“Una bella soddisfazione per tutti”. Dal proprio ufficio del commissariato di San Benedetto del Tronto, è così che Andrea Crucianelli – dirigente della Squadra Mobile di Ferrara che diresse le indagini che portarono in seguito all’arresto dei membri cult degli Arobaga/Vikings – commenta la decisione con cui i giudici della Corte di Cassazione, martedì (27 maggio) pomeriggio hanno messo la parola fine sul processo alla mafia nigeriana, confermando le condanne per tredici imputati.
Soddisfatto della decisione?
“Sì. Il mio non può che essere un bel commento. La notizia della conferma delle condanne in Cassazione penso sia stata una bella soddisfazione per tutti. Per tutta Ferrara. Non solo per la Polizia di Stato che ha svolto le indagini, ma anche per la Procura e per tutti i cittadini ferraresi”.
Quanto sente sua questa sentenza?
“Più che mia, è di tutta la squadra. Di tutti i miei collaboratori perché hanno fatto un lavoro davvero eccezionale che senza di loro sarebbe stato impossibile. Abbiamo operato giorno e notte, senza mai risparmiarci, e alla fine siamo riusciti ad andare a fondo, ricostruendo tutti i passaggi che poi hanno costituito il fulcro dell’indagine. È stato fatto un lavoro eccellente, che ci ha permesso di raggiungere un risultato unico per una Squadra Mobile di provincia come lo era la nostra. Di questo devo anche ringraziare il pm Roberto Ceroni della Direzione Distrettuale Antimafia di Bologna e la pm Isabella Cavallari della Procura di Ferrara perché sono stati veramente dei magistrati di prima linea. Hanno assecondato le nostre richieste e come noi ci hanno creduto, andando fino in fondo in una vicenda che è finita nella migliore maniera possibile”.
Come siete riusciti a mettere insieme i pezzi per permettere alla Procura di formulare l’ipotesi che poi ha portato a contestare l’associazione di stampo mafioso?
“Principalmente ricostruendo la filiera delle varie associazioni. Degli Arobaga e dei Vikings, riuscendo ad arrivare alla figura di Dj Boogye che era il capo dell’organizzazione a Ferrara, ma non solo. Riuscimmo infatti a ricongiungere questo filone con un altra cellula che aveva contatti nel Nord Italia, nello specifico a Torino. Fu possibile soprattutto grazie all’indagine che nacque a seguito del tentato omicidio di Stephen Oboh, quello dell’agguato col machete in via Olimpia Morata (siamo nel luglio 2018, ndr). Quell’episodio ci permise di riflettere e di scoperchiare il vaso di Pandora, relativamente ai soggetti coinvolti e ai traffici di stupefacenti”.
Quand’è che avete capito che quella che agiva a Ferrara era mafia nigeriana?
“Dalle intercettazioni telefoniche direi, da cui emerse la presenza di un’organizzazione piramidale con vari compiti. Dal capo, ai capo settori fino ai pusher in strada. Ci metto anche le altre indagini satellite svolte in quel periodo, come quella che ci portò a installare le telecamere nella zona del Grattacielo, che ci permise di effettuare arresti e sequestri differiti”.
C’è stato un episodio in particolare dell’inchiesta che le è rimasto impresso?
“L’episodio chiave è quello del tentato omicidio del machete, legato a una questione di spartizione tra bande rivali delle varie zone di spaccio e del traffico di droga in città. È stato il fatto che ha dato il là a tutta l’indagine, come dicevo”.
Esiste il pericolo legato a un eventuale ritorno del fenomeno in città?
“Il rischio c’è sempre perché le cellule possono ricostituirsi. Come in ogni situazione di criminalità organizzata, quando si arresta il capo, il rischio è che il suo posto lo possa prendere qualcun altro. Bisogna sempre stare sul pezzo e restare attenti a ogni minimo reato spia, principalmente a quelli legati allo spaccio e alle aggressioni tra connazionali”.
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