Economia e Lavoro
25 Gennaio 2025
L'11 febbraio un incontro "con il coinvolgimento di saperi, competenze, ruoli istituzionali oltre che economici"

Parte a Ferrara il tentativo di salvare la chimica italiana

di Redazione | 6 min

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Filctem Cgil torna sulla conferenza di mercoledì a Roma, nella quale il piano di Eni per Versalis era stato definito una dismissione più che transazione ecologica con la scelta di chiudere i cracking di Priolo e Brindisi che mette a rischio i i poli di Ferrara, Ravenna e Mantova. Un problema che potrebbe portare a 20mila posti di lavoro in meno in Italia comprendendo anche l’indotto.

“Il Governo – dice Filctem -, come pure le Regioni e le altre istituzioni dei territori, dovrebbe aprire una riflessione (che è già aperta in Europa, proprio per evitare di cancellare una dotazione industriale ritenuta fondamentale per le filiere di produzione e per la sostenibilità futura) sul ruolo della chimica nella prospettiva industriale dell’Italia: mettendo sul tavolo non solo le aspettative immediate degli azionisti Eni, ma ragionando anche di futuro, potrebbero rendersi evidenti nuove opportunità e percorsi che guardino davvero ad una ambientalizzazione di certe produzioni e a mantenere know-how prodotti dal lavoro di uomini e donne italiane, al servizio del benessere economico e sociale”.

“Come sindacato – aggiungono – organizzeremo nei prossimi giorni in Puglia, in Sicilia e in Emilia attivi pubblici dei delegati con il coinvolgimenti di saperi, competenze, ruoli istituzionale oltre che economici: una di esse si terrà a Ferrara il giorno 11 febbraio“. Incontri con esperti e figure con le quali avviare un dibattito che possa iniziare la riflessione ritenuta fondamentale dal sindacato sulla scia di quello che era successo nella conferenza di Roma del 22 gennaio. Un’iniziativa che “aveva l’obiettivo di illustrare e accendere i riflettori su ciò che si potrebbe determinare con la dismissione della Chimica di Base nel nostro Paese”.

Al centro delle critiche le scelte di Eni che, “con l’avallo del Governo, potrebbero farci uscire da queste produzioni che supportano l’80% delle industrie a valle, e l’Italia sarebbe l’unica in Europa a non avere cracking nel suo territorio, condannata così a diventare totalmente dipendente anche da questa fondamentale produzione”. Proprio durante l’incontro il segretario generale della Filctem Marco Falcinelli ha illustrato il pesante impatto sociale che potrebbe determinarsi nell’immediato futuro nelle zone interessate dalla chiusura dei Cracking a Priolo e a Brindisi.

“Parliamo – dicono – di lavoratori diretti e indiretti, perdita di attrattiva da parte di altri soggetti industriali e il conseguente alto rischio di desertificazione di quei territori (per un lavoratore diretto lavorano 3 lavoratori dell’indotto). Pensiamo a Basell che a Brindisi è già stata protagonista della cessazione di un impianto (P9T dicembre 2023) e della messa in vendita dell’impianto ancora in attività nel polo chimico, che ora rischia con la chiusura del Cracking di non avere neanche quella chance, con il pericolo della chiusura e altra perdita di competenze”.

Mercoledì avevano spiegato come “il piano di dismissione Eni, partecipata dello Stato, dovrebbe avere l’obbligo di agire un ruolo diverso nel Paese, di responsabilità per quei territori e della tenuta occupazionale, non inseguire solo ed esclusivamente l’interesse degli azionisti: insomma fare impresa che guarda al futuro con i necessari interventi per sostenere le produzioni e non limitarsi ad assecondare le aspettative della finanza”.

Ribadendo ancora una volta come per Filctem si tratti di “una visione miope e non strategica da parte di Eni e del Governo, che chiudendo i Cracking e agendo da società intermediaria per quelle materie prime necessarie ad alimentare gli impianti di Polietilene, Aromatici, Elastomeri e Polipropilene di Mantova, Ferrara e Ravenna, espone alle incertezze del mercato (geopolitiche e prezzi) la competitività delle principali filiere industriali del Paese”. Mentre “sulla convenienza decantata dalla stessa ENI per le materie prime, pesano le evoluzioni per ora ancora tutte da determinare, dei cambiamenti conseguenti al cambio di presidenza USA, che potrebbe movimentare gli scenari di riferimento non solo per i prodotti petroliferi e i loro derivati, ma anche per gli scenari orientati a riciclo e recupero dei materiali”.

Una scelta, quella di Eni, che “mette a repentaglio i lavoratori (per primi quelli dell’indotto), oltre al know how di questi: la ricerca, lo sviluppo di nuove tecnologie come il riciclo chimico, possibile solo con i cracking in attività, realizzando davvero la transizione delle produzioni in ottica sostenibile con cicli produttivi circolari che si chiudono non disperdendo gli scarti e i rifiuti”.

Al professor Basile il compito di illustrare “come il piano di dismissione della Chimica di base non sia sostenibile sul piano sociale, ma ancor di più sul piano ambientale e tecnico”.

Il professore ha esposto i rischi di questa dismissione: “Il mercato delle olefine è destinato a crescere del 5% all’anno, uscire da questo settore produttivo significa uscire da un settore con enormi possibilità. Nel prossimo futuro ci sarà un utilizzo strategico per i cavi ad alta potenza (sul quale stanno investendo tutti i grandi gruppi della chimica), le auto elettriche avranno bisogno di isolanti per le alte temperature e ciò sarà possibile con materiali realizzati con politene e polipropilene. Dismettere i cracking e perdere in tal modo ogni capacità di produzione, ci assoggetta al mercato e alle condizioni geopolitiche mutevoli, rischiando di avere in futuro carenze di forniture o aumento dei costi mettendo così in ginocchio interi settori italiani“.

“Eni – spiegano – nel suo piano di dismissione della chimica di base per una fantomatica svolta green, dichiara di ridurre le emissioni di CO2 di circa 1 milione di tonnellate l’anno, ma nella realtà i produttori asiatici hanno un’impronta carbonica di ben 2 volte e mezzo di quella italiana; parlando in numeri questa operazione aumenterà le emissioni di CO2 in atmosfera di ben 2 milioni di tonnellate all’anno: emissioni da produzione ed emissione da trasporto”.

“Inoltre – proseguono – poiché la comunità europea ha istituito la carbon border adjustment mechanism, nella pratica le importazioni di materiali dovranno vedere applicata una maggiorazione economica in base alla CO2 inglobata/connaturata alla modalità di produzione di tali prodotti. Questo anche per evitare ulteriori spostamenti di industrie europee fuori dai suoi confini per ricercare condizioni di costo più vantaggiose soprattutto sugli aspetti ambientali di produzione”.

E ancora: “I costi delle materie prime che oggi Eni dichiara di volere reperire a prezzi convenienti fuori dal suo perimetro aziendale, potrebbero aumentare fino al 50% per alimentare gli impianti dell’area Padana, determinando per essi una condizione duratura di scarsa competitività. Anche su questo sarebbe necessario fare chiarezza in quanto l’alto costo delle materie prime e della gestione delle utenze energetiche è completamente gestito dalle altre controllate di Eni. Inoltre anche le bioraffinerie (che sono progetti Eni in espansione) producono scarti di raffinazione come il propano, che potrebbero alimentare i cracking oltre all’olio pirolitico realizzato dal recupero chimico dei rifiuti che chiuderebbero il ciclo produttivo. Lo stesso riutilizzo della CO2 generata dall’attività di produzione delle olefine, potrà trovare un approccio integrato ai cicli di generazione se esisteranno ancora tali attività”.

Infine “la dismissione della chimica di base avrebbe un impatto negativo su più aspetti che non possiamo trascurare: sociale, ambientale e tecnico, controproducente in questa fase storica di grandi cambiamenti. La Cgil non intende rassegnarsi a questo declino e non solo perché esso accentuerebbe l’impoverimento di territori già colpiti da un regresso economico sociale, come Ferrara”.

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