Scrivo sempre la stessa cosa.
Del resto come potrei scrivere qualcosa d’altro vivendo nella città dove il tempo è immobile, nella città dove tutto quello che accade si ripete all’infinito.
Inevitabilmente anche il mio dire che qui il tempo non passa è prigioniero dello stesso incantesimo che inchioda questa città a essere ferma sulla linea dell’orizzonte degli eventi; non viene inghiottita dal buco nero, ma non ha energia per vincere la forza di gravità.
E allora il tempo non va né avanti né indietro.
Si sta in questo non succedere, qui.
Si leggono cose identiche da vent’anni. Il dolore di Lino Aldrovandi, i macachi dell’università, la politica che non ha qualità.
Eppure, anche se niente entra mai nel passato niente è mai davvero presente. La città non ha l’energia di esistere davvero e quindi poi, inevitabilmente trasformarsi, diventare altro da ciò che era.
Tutto rimane in questo limbo grigiastro, rallentato, come in un film asincrono, con la voce del doppiatore in ritardo sui movimenti della bocca. Ogni volta a Ferrara senti raccontare cose che hai già visto avvenire una, dieci, mille volte.
Davvero me lo stai dicendo ancora? Ma poi ti abitui.
E lasciamo stare i poveri politici.
Non è un problema politico, né economico né sociale, è l’archetipo della ferraresità, quello scansare la vita come fosse un impegno troppo gravoso, inadatto a gente che si è fatta ormai trasparente.
Passeggiando per il centro incontri ogni volta, a fianco del duomo, questo tizio che da mattino a sera canta a squarciagola, urla e insulta i bancari, i politici, e tutto il sistema di una città che lo ha rovinato – dice.
È l’unica voce che si ode nella piazza.
Sono vent’anni che urla e racconta la stessa cosa, e sono vent’anni che nessuno lo degna di uno sguardo.
Ha l’accento toscano, ci ha messo un po’, ma è diventato asincrono.
Facci caso, la sua voce arriva che ha la bocca chiusa.
Grazie per aver letto questo articolo...
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