“Per quanto il processo sia di natura indiziaria, la Corte ha raggiunto al di là di ogni ragionevole dubbio la convinzione circa la responsabilità dell’imputata”.
Sono le motivazioni della sentenza del processo di primo grado sulla morte di Denis Bergamini, avvenuta a Roseto Capo Spulico il 18 novembre del 1989. Una sentenza arrivata lo scorso 1° ottobre e che ha portato a distanza di 35 anni dai fatti alla condanna a 16 di reclusione di Isabella Interno, ex fidanzata del calciatore del Cosenza, per omicidio in concorso con ignoti.
E a leggere e rileggere le 502 pagine di motivazioni vergate dalla presidente della Corte d’Assise di Cosenza Paola Lucente, insieme al giudice a latere Marco Bilotta e ai giudici popolari, si fatica ad accettare il fatto che verità e giustizia per la famiglia di Bergamini siano arrivate solo ora.
Due sono le frasi dette dall’imputata, prima dell’omicidio e la seconda dieci giorni dopo, che – come si esprimono i giudici – “chiudono il cerchio sul contributo della Internò nel delitto”.
Il 6 novembre 1989 Internò parla con l’amica Tiziana Rota, che si rifiuta di intercedere per lei con Denis che l’aveva lasciata: “è un uomo morto, se non torna con me lo faccio ammazzare; piuttosto che sia di un’altra preferisco che muoia”. Dopo dodici giorni il corpo del calciatore ferrarese era disteso sull’asfalto della statale Jonica. E dieci giorni dopo, durante un viaggio in Costiera con l’amica: “era giusto così”.
La Corte ripercorre le tappe della vicenda, le testimonianze e le consulenze, oltre all’analisi della personalità di Donato Denis Bergamini, il suo rapporto con l’allora fidanzata, l’ultima settimana di vita del calciatore, le contraddizioni della famiglia Internò la sera della morte di Bergamini, il brutale omicidio.
Tappe e analisi da cui emerge la prima grande verità: non fu suicidio, come fu fatto credere per anni. “Donato Bergamini – scrive la Corte – non si è suicidato. Vieppiù non lo ha fatto con le modalità riferite dall’odierna imputata, unica fonte che ha sostenuto la versione dell’insano gesto. Tutte le risultanze acquisite, sia di generica, sia tecnico scientifiche, anche quelle emerse nei primigeni accertamenti, contraddicono inequivocabilmente questa ipotesi».
A nessuno infatti Denis aveva mai esternato uno stato d’animo di depressione o di sconforto: “era giovane, aveva successo, ragazze e denaro”. L’unica volta che i compagni e gli amici lo videro preoccupato fu a pochi giorni dalla morte, dopo aver ricevuto una telefonata da Isabella.
I due, dopo tre anni di fidanzamento, si erano lasciati da qualche mese. L’istruttoria ha restituito – fa presente la Corte – “in termini indubbi un atteggiamento ossessivo dell’imputata, una condotta che oggi verrebbe definita di ‘stalking’”.
Isabella Internò era una persona “risoluta, non rinunziataria ed animata dal morboso desiderio di possesso della vittima, che in precedenza aveva pagato il prezzo del rifiuto del matrimonio con un’interruzione di gravidanza molto avanzata (illecita) con l’uccisione di un feto ormai formato”.
E poi, “per salvare l’onore di ragazza per bene che non può far nascere e crescere un figlio fuori dal matrimonio. Non lo accettava la società dell’epoca, un territorio sordo all’emancipazione femminile all’indomani dell’abrogazione del delitto di onore, ma soprattutto non lo accettava la sua famiglia”.
Ecco allora perché Isabella quel giorno ‘adesca’ Denis, lo spinge a lasciare il ritiro, passare a prenderla a casa (per costruirsi un alibi) e farsi accompagnare sulla statale teatro di quello che sarà il finto suicidio.
Qui, “in concorso con altre persone rimaste ignote – come recita il capo di imputazione -, dopo averlo narcotizzato o, comunque, ridottone le capacità di difesa, ne cagionava la morte, asfissiandolo meccanicamente mediante uno strumento “soft” e ponendolo, già cadavere o in limine vitae, allo scopo che venisse investito da mezzi in transito, sulla strada, all’altezza del comune di Roseto Capo Spulico, dove, veniva investito dall’autocarro condotto da Pisano Raffaele”.
L’investimento gli procurerà “lesioni da scoppio causate dallo schiacciamento addomino-perineale, con conseguente eviscerazione degli organi e rottura di grosso vaso arterioso, a sinistra”.
Da qui la condanna a 16 anni di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali. L’imputata è stata condannata anche all’interdizione perpetua dai pubblici uffici, nonché all’interdizione legale per la durata della pena.
La Corte nella quantificazione della pena fa presente che “lo Stato, esercitando il potere punitivo, incarna la nemesi a distanza di 35 anni dal fatto. Ma la risposta dello Stato non è solo nemesi. La funzione della pena non è solo retribuzione; è rieducazione del condannato”.
Ma “Internò oggi ha 55 anni; è madre di due figlie ed è inserita nel tessuto sociale senza ver mai più commesso reati. Quale reale effetto special-preventivo svolgerà la pena in questo caso? Probabilmente nessuno”.
Da qui la decisione di una pena bassa che tenga conto di queste circostanze e che esclude le aggravanti della crudeltà e dell’avere agito con mezzo venefico o insidioso.
La sentenza dispone anche la “la trasmissione degli atti al pm in sede nei confronti di Trezzi Assunta, Tenuta Concetta, Internò Roberto, Internò Dino Pippo, Mazzuca Michelina, D’Ambrosio Luigi e Pisano Raffaele, come richiesto dal pm”.
Trasmessi poi gli atti al pm di Castrovillari “affinché valuti la posizione di Internò Roberto (cugino di Isabella Interno, ndr) in relazione all’ipotesi di omicidio.
Questo perché in una intercettazione ambientale del 2 aprile 2019 la moglie Michelina Mazzuca si rivolge, al culmine di una lite domestica, al marito Roberto Internò, cugino dell’imputata: “Bergamini dovrebbe farti a pezzi come hai fatto con lui, vigliacco, bastardo”.