Genocidio come cancellazione coloniale
Il Rapporto della Relatrice Speciale sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967: è genocidio
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Uno scrittore israeliano su un giornale israeliano afferma che Israele sta commettendo un genocidio
L'antifascismo è un'affermazione produttiva, non una mera postura
Per Hannah Arendt l'equivalenza assoluta di ogni singola e unica vita è l'unica equivalenza che conta
Ogni innocente che viene ucciso dalla pianificazione della guerra è vittima di un crimine orrendo, inaccettabile, che non si può giustificare mai
Un’associazione studentesca ha scritto un comunicato nel quale, in riferimento alla battaglia di Culqualber nella quale un migliaio di soldati italiani, in parte carabinieri e in parte volontari della milizia nazionale fascista, perirono ad opera delle forze armate britanniche, i caduti italiani vengono definiti “figure valorose che hanno sacrificato la propria vita per la nazione”.
Evidentemente la conoscenza della storia da parte di questi studenti è, al pari dell’italiano del comunicato, varia ed eventuale.
La battaglia in questione, commemorata lo scorso 21 novembre in occasione della festa dell’Arma, è stata uno scontro fra due Stati colonizzatori in terra d’Etiopia. Non so cosa ci sia di eroico nel mandare al macello soldati contro forze sovrastanti per numero dieci volte, e per mezzi ed armamenti, invece che deporre le armi ed arrendersi: so però che era prassi bellica (basta rileggersi, o forse leggere, Un anno sull’altopiano di Emilio Lussu) stordire con grappa, se non di peggio, i morituri destinati dopo il massacro ad essere glorificati come eroi. So che se proprio era irreprimibile il bisogno testosteronico di impugnare un fucile come sostituto di quel fallo spesso usato dai militi italiani in Africa per stuprare, i soldati italiani avrebbero potuto rivolgere la canna contro i loro ufficiali e governanti fascisti.
So, perché conosco la storia, che in Africa i soldati italiani – e fra loro anche i Regii Carabinieri – hanno commesso veri e propri crimini di guerra. Che il numero di militari etiopi uccisi dagli invasori italiani è pari al numero dei soldati italiani caduti nell’intera seconda guerra mondiale, e il numero dei civili più del doppio. Che fra i comandanti delle forze italiane a Culqualber c’erano figure come Alfredo Serranti, medagliato per il suo ruolo nella battaglia dell’Ogaden, nella quale 5.000 partigiani etiopi furono sterminati col fuoco all’interno dei rifugi naturali in cui si erano asserragliati, per poi essere (i superstiti) stanati con le bombe a mano e finiti a baionettate; o come Alberto Cassoli, patrizio e agrario reggiano, fondatore e finanziatore del fascio di Reggio e seniore della milizia fascista.
So che la nazione – non spreco la parola “patria”, perché per me, e quelli come me, nostra patria è il mondo intero, con quel che ne segue – che difendevano era una dittatura totalitaria nella quale erano stati istituiti i campi di concentramento e avviata la deportazione degli ebrei.
E per questo mi chiedo perché l’Arma celebri come sua giornata una battaglia combattuta in terra straniera da militi con le mani sporche di sangue etiope, eritreo e abissino, invece del giorno della battaglia di Porta San Paolo a Roma, o del sacrificio – questo sì! – di Salvo D’Acquisto, sul quale proprio in questi giorni è stata annunciata la conclusione del processo di beatificazione.
Ma celebrare militari e fascisti caduti dopo aver invaso, devastato e massacrato un paese e un popolo sovrani – come in Libia, Albania, Grecia, Spagna, Yugoslavia, Russia – francamente no.
Oltretutto, erano partiti per conquistare un impero, e hanno avuto l’impero che cercavano: lungo un metro e ottanta, largo uno, profondo uno e mezzo.
Davvero, niente e nessuno da celebrare.
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