Eventi e cultura
9 Novembre 2024
“Un giorno tutto questo finirà”, la nuova produzione di Ferrara Off, indaga la nostra identità di europei e occidentali attraverso le storie di due donne simili e nello stesso tempo agli antipodi

Nell’attesa che tutto finisca

di Redazione | 4 min

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Ognuno di noi fa fronte alle proprie ansie e angosce esistenziali come vuole, o meglio come può: cerca una strada, un modo, per dare un senso, per dare un ordine. Un tavolo pieno di cose alla rinfusa, che mano a mano trovano un posto, un senso, forse non quello che avremmo scelto e deciso noi. Un uomo e una donna ripetono delle azioni concrete, come apparecchiare, cucinare, mangiare, bere, leggere, vestirsi, pettinarsi, apparentemente senza alcuna consapevolezza o nel tentativo di perderla completamente.

Così inizia la nuova produzione di Ferrara Off (con il sostegno di Nuovoimaie), che ha debuttato giovedì 7 novembre negli spazi di viale Alfonso I d’Este: “Un giorno tutto questo finirà”, ideazione di Diana Höbel e Giulio Costa, che hanno curato rispettivamente anche drammaturgia e regia, con in scena la stessa Diana Höbel insieme a Marco Sgarbi.

Höbel e Costa sono partiti da un racconto contenuto nel romanzo “Tre donne forti” dell’autrice franco-senegalese Marie Ndiaje, che narra le vicende di Khady Demba: una giovane vedova senegalese scacciata dalla famiglia del marito, nella sua eroica esperienza di migrante povera e sola, sopporta ogni angheria senza perdere la propria dignità, in cerca di una vita migliore e della propria emancipazione. Accanto a lei, Diana Höbel costruisce il personaggio parallelo e ‘altro’ di una donna occidentale benestante, chiusa nella propria bolla esistenziale, fatta di quotidianità ripetitiva, relazioni prive di comunicazione e assenza di prospettiva.

Ed è in realtà tutto lo spettacolo, che combina dimensione privata e dimensione sociale, ad essere giocato intorno al dualismo identità-alterità: quella della dei due personaggi femminili e quella del personaggio di Höbel di fronte al personaggio di Marco Sgarbi, il suo compagno ma anche il suo ‘altro’ maschile. Khady Demba riesce “a resistere a tutto rimanendo salda in se stessa, l’unica certezza che ha è il suo nome e a quello si aggrappa”, ha detto Höbel nel consueto incontro con il pubblico al termine dello spettacolo. In scena, infatti, l’unico nome che viene pronunciato, a tratti quasi ossessivamente, è proprio “Khady Demba”:  quasi una formula per evocare un sentimento quasi mistico di immortalità, inviolabilità, orgoglio, perché lei non si basa sullo sguardo degli altri per definire se stessa. Gli altri due personaggi in scena, per contro, restano anonimi. Da una parte “una donna con un contesto” ma senza nome, dall’altra una donna “con solo un nome senza un contesto”.  Da un lato una ragazza umile, senza nessuno, la cui forza sta nel ricordare sempre a se stessa, in ogni circostanza, il proprio nome. Dall’altro lato un uomo e una donna, senza nome, che si sono costruiti un luogo di appartenenza e che si ritrovano prigionieri di una vita senza alcuna prospettiva se non la reiterazione del quotidiano. Da una parte la povertà, il movimento, il bisogno, dall’altra la ricchezza, la staticità, il superfluo. Le due storie hanno in comune la polvere, quella del deserto che Khady Demba prova a scrollarsi di dosso e quella che cade inesorabilmente sui beni materiali della coppia: in fondo non è altro che “l’emblema della sterilità”, come ha sottolineato Giulio Costa giovedì sera.

Anche fra l’uomo e la donna si legge un’ulteriore alterità: due modi alternativi di vivere il presente e pensare al futuro. Lei rimane intrappolata nei pensieri e nelle parole, lui si muove in silenzio, incarna i cosiddetti ‘preppers’, persone che si preparano a ogni eventualità catastrofica con manuali di sopravvivenza e che esorcizzano così il loro terrore di perdere tutto. “Una parte del loro dramma – ha sottolineato Marco Sgarbi – è che ciascuno fino alla fine cerca di trascinare l’altro nel proprio mondo”, senza riuscirci.

C’è l’Io, c’è l’Altro, c’è il Noi. Non solo noi come pubblico, ma soprattutto come comunità: come reagire, non solo come individui, ma come comunità, alle ansie e alle angosce nell’attesa che tutto finisca? Dopo “Futuro anteriore”, Ferrara Off ancora una volta riesce a indagare con uno sguardo per nulla scontato, trasversale e profondo allo stesso tempo, con delicatezza, ironia e senza retorica temi attuali che toccano le corde di ciascuno di noi.

Prossime repliche nello spazio teatrale sul Baluardo del Montagnone: venerdì 15 e sabato 16 novembre alle 21.00 e domenica 17 novembre alle 17.00

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