L’avvio del progetto CCS a Ravenna non è una buona notizia per l’ambiente. La realizzazione di 75 km di gasdotto, dal petrolchimico al mare, non è una buona notizia per il territorio ferrarese.
Recentemente ENI e SNAM, che come sempre hanno la potestà di mettere le popolazioni di fronte ai fatti compiuti, senza che queste siano state protagoniste di qualsivoglia consultazione, hanno annunciato l’avvio delle attività di iniezione sotterranea della CO₂ nell’ambito del progetto Ravenna CCS, progetto da anni contestato da scienziati e ambientalisti.
Si tratta del primo impianto italiano per la cattura e lo stoccaggio permanente dell’anidride carbonica, al servizio delle industrie della zona, per decarbonizzare le loro produzioni. Come noto, la CO2 delle aziende più energivore verrà catturata e trasportata attraverso condotte, fino alla piattaforma di Porto Corsini, al largo di Ravenna, per essere iniettata in un giacimento di gas esaurito, a circa 3mila metri di profondità.
La fase 1 avviata ora avrebbe lo scopo di catturare, trasportare e stoccare la CO2 emessa dalla centrale Eni di Casalborsetti, 25 mila tonnellate per anno. Successivamente ci sarà una fase 2 nella quale si prevede di stoccare fino a 4 milioni di tonnellate l’anno entro il 2030. Per la fase 2 dovranno essere costruite ingenti opere accessorie, in particolare un lunghissimo gasdotto di 75 chilometri che trasporterà la CO2 prodotta dal polo chimico di Ferrara fino a Casalborsetti, attraversando i territori di Ferrara, Voghiera, Portomaggiore e Argenta. “Gli impatti ambientali saranno ridotti al minimo e incideranno quasi esclusivamente in fase di costruzione”, sostiene Snam, “la fase di esercizio non comporterà impatti né emissioni”: purtroppo non sarà così, pesanti saranno le ripercussioni sui territori interessati, come sta avvenendo sotto gli occhi di tutti per la realizzazione del gasdotto della Linea Adriatica..
Ma perché la comunità scientifica e i movimenti ambientalisti si oppongono a questo progetto? Perché la cattura e stoccaggio della CO2 viene proposta come operazione in favore del clima, ma è solo una facciata dietro cui le società degli idrocarburi si nascondono per continuare a estrarre gas e petrolio il più a lungo possibile, ottenendo l’autorizzazione a rimandare sine die il taglio delle emissioni, un’ operazione di greenwashing a scopo di lasciare la situazione complessiva così come sta.
“Proporre lo stoccaggio e l’uso della CO2 rappresenta un alibi straordinario per continuare a usare i fossili e produrre anidride carbonica contribuendo all’attuale trend di crescita esponenziale del disastro ambientale. E perseverare scelleratamente a privatizzare utili e socializzare i costi” scrive Vincenzo Balzani professore emerito, dipartimento di Chimica di UniBo, insieme ad altri 50 scienziati.
Perché i diversi progetti di CCS finora, nel mondo, si sono dimostrati deludenti, assolutamente non convenienti economicamente e non utili a contrastare il cambiamento climatico.
Rispetto ai tassi di cattura di CO2 annunciati, il risultato è stato deludente, essendo quelli effettivi spesso significativamente più bassi rispetto a quelli teorici. I ricercatori dell’Istituto per l’economia energetica e l’analisi finanziaria (Ieefa) hanno riscontrato che i progetti di cattura del carbonio con prestazioni insufficienti superavano notevolmente quelli di successo, “con ampi margini” come scrive Bruce Robertson, l’autore del rapporto Ieefa. Non ci sono molti elementi per pensare che ENI e SNAM riusciranno effettivamente a rispettare gli obiettivi sbandierati.
Rispetto ai costi, dal 2009 i governi hanno stanziato oltre 8 miliardi di dollari per progetti CCS, ma solo il 30% di questi finanziamenti è stato speso perché i progetti non sono riusciti a decollare. Alcuni sono stati realizzati ma hanno avuto risultati insufficienti, e i percorsi sono stati spesso abbandonati per insostenibilità economica. Per quanto riguarda i costi del progetto ravennate, che SNAM e ENI, peraltro, non hanno reso noti nei dettagli, sappiamo che il costo di un ciclo completo di separazione e stoccaggio della CO2 negli impianti attuali varia da 124 a 317 euro per tonnellata di CO2, il che vuol dire che il costo della sola prima fase sarà di oltre cinque milioni di euro, senza considerare nel calcolo i costi collegati alla gestione dei rischi, né quelli della manutenzione e monitoraggio dei siti. Fra l’altro gli impianti, in gran parte, sono lontanissimi dai
siti di stoccaggio e anche questo rende estremamente oneroso il processo, che oltre tutto richiede l’uso di sostanze chimiche, rilascia grandi quantità di ammoniaca e comporta un alto consumo di acqua e di elettricità.
Rispetto ai rischi, anche per le future generazioni, riguardo allo stoccaggio geologico della CO2, disastri come quelli di Trecate e della Deepwater Horizon mostrano che non è sufficiente la stabilità geologica a scongiurare fughe completamente incontrollabili del contenuto del reservoir. In aree sismiche caratterizzate dalla presenza di faglie note, come la fascia adriatica, non si può escludere che terremoti modifichino la capacità futura di un sito di stoccaggio di trattenere affidabilmente il contenuto, così come esiste evidenza di sismicità indotta da attività di estrazione e reiniezione di fluidi.
Rispetto allo stato attuale di funzionamento, i circa 40 impianti commerciali di cattura della CO2 operativi nel mondo catturano annualmente 45 milioni di tonnellate di CO2, equivalenti solo allo 0,12% delle emissioni globali del 2022 legate al solo settore energetico, senza contare gli altri milioni di tonnellate provenienti dai trasporti, dalla vita domestica, dall’agricoltura, i rifiuti e tutti gli altri settori.
Dal punto di vista del bilancio costi-benefici, dunque, non ci siamo proprio. Molte attività energivore sono più elettrificabili di quanto si pensi comunemente, e investire per imboccare questa strada sarebbe sicuramente molto più conveniente, da tutti i punti di vista. Ma sappiamo anche bene che le società oil-gas ricevono cospicui sussidi ( i famosi SAD, Sussidi Ambientalmente Dannosi, che i governi continuano ad erogare) e quindi non si pongono il problema della reale utilità dei progetti. I sussidi pubblici alle fonti inquinanti andrebbero progressivamente tagliati, invece ammontano a svariate decine di miliardi annui, ed ENI e SNAM sono fra i massimi beneficiari.
Se vogliamo proteggere e salvare l’umanità e il pianeta e invertire decisamente la rotta dell’attuale surriscaldamento globale provocato dai gas climalteranti c’è una sola strada percorribile: diminuire drasticamente e con urgenza l’uso dei combustibili fossili. Gli obiettivi dell’Europa sono chiari: ridurre le emissioni nette di gas a effetto serra (principalmente CO2 e metano) di almeno il 55% entro il 2030 e diventare il primo continente a impatto climatico zero entro il 2050..
Noi siamo convinti che tutto il sistema energetico debba essere profondamente riformato, tolto dall’ambito del profitto e traslato in quello dei beni comuni, e soltanto così la società nel suo complesso potrà decidere quali sono i fronti della ricerca e della tecnologia realmente utili. Ma a SNAM e a ENI, e ai loro “padrini politici” di ogni colore, il tema del bene comune non interessa.
Rete Giustizia Climatica Ferrara
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