Sarebbe stato minacciato, insieme alla sua famiglia, per la sua attività di collaboratore di giustizia, mentre era detenuto nel carcere di via Arginone. Protagonista della vicenda è un 40enne friulano che oggi, per quei fatti, avvenuti tra il 2016 e il 2017, è parte offesa nel procedimento aperto in tribunale a Ferrara contro il 48enne Filadelfio Vasi, storico capò ultra dei Blood&Honour del Varese Calcio, con alle spalle una lunga storia criminale di ‘tutto rispetto’ che va dalle accuse per tentata rapina alla droga, passando per il tentato omicidio, la rissa e le aggressioni.
Secondo la Procura, mentre lavorava come addetto all’Ufficio Spese della casa circondariale di Ferrara, Vasi – personalità da sempre vicina agli ambienti di estrema destra – sarebbe venuto in possesso di due lettere che il 40enne stava per inviare alla Dda di Trieste e ai carabinieri del Ros di Udine, a cui già in passato aveva fatto rivelazioni che avevano portato alla cattura e alla condanna di esponenti di bande criminali attive nel nord-Italia e nell’area balcanica dedite al traffico di sostanze stupefacenti e di armi, iniziando a minacciarlo pesantemente.
Gli disse – questa l’accusa – che gliela avrebbe fatta pagare sia per la sua collaborazione già effettuata con la giustizia che per eventuali dichiarazioni che avrebbe fatto in futuro. A farne le spese anche la famiglia dell’uomo, a sua volta intimidita e perseguitata, con avvertimenti che impaurirono chi fu costretto a subirli, soprattutto per il curriculum penale del capo ultrà varesino, il cui posto sugli spalti, dopo l’arresto, fu preso da Daniele ‘Dede’ Belardinelli, l’ultrà ucciso negli scontri tra le tifoserie di Inter e Napoli avvenuti a Milano il 26 dicembre 2018.
È stato lo stesso 40enne, sentito ieri mattina (11 ottobre) in videocollegamento col tribunale, a confermare questo stato d’animo, acuito dallo “spessore criminale” di Vasi, che – come raccontato dalla vittima – si vantava di avere dei contatti con criminali attivi nel nord-Italia, e in particolare nella Bergamasca, facendo anche il nome di Giambattista Zambetti, soprannominato “il Ragno” dalle cronache locali. Un uomo che, nel 2013, si ipotizzò si fosse procurato della dinamite per liberare – senza riuscirci – suo figlio e un complice, finiti in carcere dopo un conflitto a fuoco con la polizia slovena, a seguito di una rapina in banca a Capodistria.
Per quelle parole intimidatorie, la vittima – oggi non più a Ferrara – fu trasferita inizialmente ad Ancona e successivamente inserita nel Servizio Centrale di Protezione di Roma, che la spostò nuovamente in un altro carcere, dove tuttora è reclusa, in una località segreta.
Al termine dell’udienza, il giudice ha rinviato le parti al 15 novembre, quando si discuterà il processo.
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