“Quelle parole imploranti di «basta, aiutatemi …», mi battono sempre in testa come un incubo”. A 19 anni dall’omicidio del figlio a parlare è Lino Aldrovandi. Su Facebokk il genitore pensa ai quattro poliziotti condannati per la morte di Federico che “avrebbero potuto e dovuto salvarti la vita, così come anche quel defibrillatore presente nell’auto di una delle pattuglie dei 4 individui e di cui uno di loro, abilitato ad usarlo, non ritenne di farlo perché il tuo battito secondo lui appariva normale, appariva regolare”.
Lino Aldrovandi ripercorre poi alcune tappe giudiziarie del processo che condannerà i responsabili per omicidio colposo: la frase di uno degli imputati che alla radio spiegava al collega che “l’abbiamo bastonato di brutto per mezz’ora”, la testimonianza di Anne Marie Tsegue, unica teste oculare che ebbe il coraggio di parlare, i manganelli rotti sul suo corpo, lo scorto schiacciato e le 54 lesioni subite nel corso dell’atroce tortura che porterà alla morte del diciottenne,
E’ a questo punto che il padre rivela un dettaglio fino ad oggi raccontato solo a pochi intimi.
“Tuo nonno Germano – racconta Lino immaginando di rivolgersi al figlio -, due giorni dopo la tua inspiegabile uccisione, ci raccontò di aver fatto un sogno dove tu gli raccontavi di aver subito un forte colpo al cuore, e che lo invitasti ad andare a vedere i referti medici degli agenti”.
Così fecero e “scoprimmo che uno di loro in effetti era stato refertato con una forte distorsione al polso. Poi, presi da una miriade di cose, non ci pensammo quasi più, confidando nel buon lavoro dei nostri avvocati e del nuovo pubblico ministero, come del resto fu”.
Poi arrivò l’udienza del 9 gennaio 2009, nel corso della quale venne sentito l’anatomopatologo di Padova Gaetano Thiene: “alla domanda sul perché degli effetti e delle cause che produssero la rottura del tuo cuore, rispose pari pari: «Insomma deve essere una cosa non da poco, però il blunt trauma, come le ripeto, bisogna avere una forza erculea, una forza che ti… anche un pugno pesante che dovrebbe, direi che rischia di aver lasciato anche traccia in chi l’ha esercitata».
A questa risposta, un brivido mi pervase. Quel «pugno pesante» che dovrebbe «aver lasciato traccia» mi fece ricordare quel sogno strano di mio suocero, dove per l’appunto parlava di un pugno al tuo cuore…”.
“Chissà quell’agente refertato con una forte distorsione al polso, come quella distorsione se l’era procurata. Chissà! – si chiede oggi il padre di Federico -. Il tuo cuore diciottenne, caro Federico, parlò di te agli uomini onesti e di buona volontà, i quali fecero il loro dovere, in un’Italia e questo è innegabile, con tante altre ingiustizie, meno conosciute della tua, ma che sono sempre lì ad aspettare…”.
“E’ chiaro e limpido che tu, Federico, non moristi certo di malore – conclude -, ma di ben altro. Chi ti uccise, la propria pena l’ha espiata ed è un uomo libero, ma credo però che non lo sarà mai del tutto ‘libero’, perché alla fine qualcosa esisterà sempre a redarguirlo nel suo intimo di quell’azione improvvida e letale che lo vide coinvolto, ovvero la sua ‘coscienza’, forse il giudice più severo”.
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