di Cecilia Gallotta
Come si parla di pace in tempo di guerra? È una domanda da un milione quella che fa da titolo al penultimo incontro degli Emergency Days, in cui il rischio di sfociare in una banale retorica ha brillantemente lasciato il posto a riflessioni tutt’altro che scontate.
Il fatto che il concetto di pace ci sia stato tramandato e si sia radicato in noi come “assenza di guerra”, fa notare la ricercatrice e firma della rivista ‘Scienza e Pace’ Valentina Bartolucci, è qualcosa che aveva già teorizzato Johan Galtung, pioniere della contrapposta concezione di pace come “presenza di qualcosa, e in particolare di giustizia, di libertà, e pienezza di vita per tutti”.
Se da un lato questo concetto di pace che la ricercatrice toscana definisce “shalomica” può sembrare un’utopia, dall’altro questo avviene proprio perché “siamo abituati a pensare alla pace come a uno stato, e non come a un processo. Se capiamo che la pace è un processo, che prevede un impegno costante, un lavoro di costruzione quotidiano a trecentosessanta gradi, l’obiettivo potrà anche essere lontano, ma intanto si può andare in quella direzione, e avere chiaro l’orizzonte”.
Per farlo però, occorre un cambio di paradigma notevole, se pensiamo – come afferma Pasquale Pugliese del Movimento Nonviolento – che siamo cresciuti con lo slogan “si vis pace para bellum (se vuoi la pace prepara la guerra, ndr), una fandonia che non ha alcuna base né realistica né razionale, ma che è stata utilizzata a mo’ di lavaggio del cervello per legittimare i conflitti di interessi dei più disparati governi, nonché il conseguente utilizzo di risorse economiche per le spese militari anziché per destinazioni più lodevoli”.
A conferma di questo parlano i dati, che Pugliese riferisce dall’NHRC (National Human Rights Institution), stimando 2443 miliardi di dollari investiti solo nel 2023 per le spese militari, parallelamente a cui assistiamo ad un aumento del 72% in più di vittime civili rispetto al 2022. Ancora, 117 milioni sono i rifugiati che si contano nel 2023 in confronto ai 108 del 2022, e solo nei primi sei mesi del 2024 sono stati sfiorati i 120 milioni.
“Questo significa, ed è lapalissiano – afferma Pugliese – che preparare la guerra non fa altro che portare più guerra; sembra scontato, ma come in tutti i casi in cui ci sono concezioni da sradicare, non lo è: se vogliamo la pace dobbiamo preparare la pace”.
Un elemento cruciale sta anche nel ruolo che i media hanno nella narrazione della guerra, e che affonda le radici nel secondo fondamento pacifista individuato nientepopodimeno che da Gandhi, ma anche da Aldo Capitini, che alla “non violenza” accostava come condizione necessaria la “non menzogna”, ossia quella che Gandhi identifica come ricerca della verità.
“Che il timore del disvelamento della verità sia alla base di tutti i fautori delle guerre, è qualcosa di sistematico che si può notare ogni volta. Basti pensare a quel che è successo ad Assange, ma anche a Gaza e potrei andare avanti all’infinito”. L’uso violento del linguaggio dei media, o l’edulcorazione dei fatti, è secondo Pugliese “la faccia della stessa medaglia: utilizzare un racconto per nasconderne un altro”.
D’accordo su questo punto anche Paola Feo, volontaria di Emergency da oltre dieci anni, che di verità ne ha vista fin troppa. “Noi eravamo in Afghanistan quando c’è stato il crollo delle Torri Gemelle – racconta – e quindi sapevamo già cosa stava vivendo quel paese ben prima dell’attentato. Tutti ricorderete quanto focus è stato dato alla notizia delle vittime americane, ma mai nessuno ha raccontato l’orrore che stava vivendo l’Afghanistan da prima, senza contare che poi si è capito che c’entrava ben poco. È stata una narrazione ad hoc, un utilizzo di vittime per nasconderne altre. Una costruzione di un nemico da abbattere e contro cui combattere”.