Il gip Danilo Russo del tribunale di Ferrara ha disposto l’archiviazione del procedimento nei confronti del medico Giada Sibahi, oltre che di Patrizia Fogli e Annalisa Gadaleta, rispettivamente ispettrice e comandante della polizia penitenziaria di Ferrara, inizialmente indagate per la morte del detenuto 29enne Lorenzo Lodi, che il 1° settembre 2021 si suicidò in cella, impiccandosi dopo aver costruito un marchingegno mortale con un lenzuolo e due manici di scopa.
Tutte e tre dovevano inizialmente rispondere di omicidio colposo in cooperazione per non aver adottato tutte le misure idonee a evitare che l’uomo si togliesse la vita.
Contestualmente, il gip Danilo Russo ha disposto l’imputazione coatta per omicidio colposo nei confronti dell’agente di polizia penitenziaria Giuseppe Palermo, che era di turno quando il detenuto si suicidò.
Lodi venne arrestato il 31 agosto dai carabinieri che lo avevano trovato in possesso di 2 kg di marijuana, più di un etto e mezzo di hashish, una pistola rubata (una Tanfoglio calibro 9) e munizioni, oltre a 16mila euro in contanti.
I militari intervennero nella sua abitazione perché la fidanzata e due amici avevano segnalato le sue intenzioni suicidarie, espresse tramite messaggi inviati dal cellulare. Una circostanza che, a quanto risulta, venne segnalata dagli operatori dell’Arma anche nel successivo verbale d’arresto. Il 29enne tornò nella sua abitazione, dove i militari e i vigili del fuoco lo cercavano, e fu lui stesso a consegnare la pistola che aveva in auto. Durante la perquisizione venne trovato il resto.
Lodi venne condotto nel carcere di via Arginone e, in attesa della convalida dell’arresto davanti al giudice, venne posto inizialmente sotto sorveglianza normale nella sezione Nuovi Giunti. Dopo un colloquio con la Sibahi cambiarono le disposizioni perché aveva manifestato pensieri suicidari e la sorveglianza passò a ‘grande’ con un passaggio di controllo almeno ogni 20 minuti. Nel pomeriggio del 1° settembre Lodi venne trovato privo di vita: si era impiccato usando il lenzuolo presente nella sua cella, un lenzuolo che non avrebbe dovuto essere lì secondo le linee guida da applicare in questi casi.
Alla dottoressa era contestato il non aver dato, nelle proprie comunicazioni di competenza (tra le quali il suggerimento di passare a un grado di sorveglianza più elevato) al personale della penitenziaria una corretta identificazione del rischio, omettendo di riferire che il giovane aveva ammesso durante il colloquio di aver pensato di togliersi la vita con un lenzuolo. L’ispettrice e la comandante invece, dopo aver ricevuto la comunicazione del rischio modificato, stando alle accuse iniziali, non avevano provveduto ad attuare una modalità di ‘grande sorveglianza‘ idonea per il caso specifico, in particolare non avrebbero fatto in modo che le lenzuola venissero ritirate.
Secondo il gip però la dottoressa Sibahi (difesa dall’avvocato Fabio Anselmo) aveva effettivamente “elevato il grado di rischio, portando infine a conoscenza della struttura penitenziaria”, chiedendo per il detenuto una “grande sorveglianza” e risultando, insieme a un altro agente, l’unica a essersi “resa conto del concreto rischio suicidario, delineando una situazione di allarme“. Di conseguenza – scrive il giudice – “null’altro poteva chiedersi alla Sibahi, dovendosi ritenere che la stessa, sulla base di quanto riscontrato, ha correttamente delineato una situazione di rischio, disponendo di conseguenza e non avendo ulteriori elementi per anche solo ipotizzare di trovarsi di fronte ad un rischio imminente”.
“La mancata comunicazione del mezzo con cui Lodi avrebbe pensato per suicidarsi (il lenzuolo) non costituisce condotta negligente, sia poiché non è previsto che il medico fornisca indicazioni di questo tipo nel certificato redatto in favore del carcere, sia poiché lo stesso Lodi, nel riferire la circostanza, aveva infine scartato l’idea ritenendo meglio assumere i farmaci prescritti, situazione che può dirsi scarsamente compatibile con l’adozione di misure ancor più gravose, quali il ritiro di lenzuola, ed eccezionali, sì da disporre un controllo “a vista” del detenuto” aggiunge il magistrato.
Su questo aspetto il gip chiama in causa anche l’autorità penitenziaria e quindi le posizioni di Fogli (difesa dall’avvocato Denis Lovison) e Gadaleta (avvocato Alberto Bova). “È fuori discussione che, laddove Lodi fosse stato privato delle lenzuola, l’evento non si sarebbe verificato nei tempi e nei modi concretamente occorsi” scrive il giudice. “Si tratta di un provvedimento appannaggio dell’autorità penitenziaria, eventualmente adottabile anche dietro consultazione con i sanitari, ma che resta nell’esclusiva disponibilità dell’amministrazione carceraria” osserva il gip. Nel comportamento delle due indagate però – “posto che entrambe erano a conoscenza della situazione in corso” – non c’è “imprudenza o negligenza” spiega il tribunale, “in assenza di specifiche avvisaglie, tali da rendere il rischio in esame imminente” e “avendo appreso dell’esistenza di un dispositivo di controllo nei confronti del soggetto appena entrato in carcere tale da poter essere ritenuto adeguato a prevenire la commissione di gesti inconsulti”.
Diversa invece la posizione dell’agente Giuseppe Palermo (avvocato Alberto Bova). Sul suo conto, il gip riscontra una “palese violazione del dispositivo di controllo” che “rende ben arduo, ad oggi, escludere una ragionevole previsione di condanna dell’indagato“. Nello specifico, il giudice per le indagini preliminari, relativamente alla condotta dell’agente, evidenzia che “le consegne relative alla sorveglianza assidua nei confronti di Lodi risultano completamente trascurate. “Emergono – scrive il gip Russo – sparuti controlli, l’ultimo dei quali avviene alle ore 11.30 del mattino, per poi riprendere alle successive ore 14.50, momento in cui l’azione suicidaria era ormai già compiuta“. “Si tratta di omissione che, a ben vedere, in questa sede può ritenersi di certo rilevante e causalmente connessa con l’evento” conclude il giudice.
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