Nella nottata del 17 giugno 2021, quando avrebbe soffocato il figlioletto di appena un anno mentre dormiva nel letto insieme a lei, nella loro casa di via degli Ostaggi, la 31enne ferrarese Amanda Guidi, oggi accusata di omicidio volontario aggravato, aveva assunto sia alcool che cocaina.
È quanto emerso durante l’udienza di ieri (giovedì 11 aprile) in tribunale a Ferrara quando, davanti alla Corte d’Assise, lo psichiatra Renato Ariatti e lo psicologo Marco Samory sono stati ascoltati sulla perizia svolta per indagare l’imputabilità, la pericolosità e la capacità di stare in giudizio della donna.
Nello specifico, sottolineando che la donna è affetta da un disturbo della personalità borderline per cui è necessaria una cura farmacologica, i periti hanno riferito che, all’epoca dei fatti, non erano emerse condizioni cliniche tali da scemare grandemente o escludere le capacità di intendere e di volere della donna, ritenuta così in grado di partecipare coscientemente al processo a suo carico. Nessuna risposta invece per quanto riguarda il quesito sulla pericolosità sociale, dal momento Ariatti e Samory hanno fatto sapere di non aver individuato alcuna patologia tale da poter incidere sulla capacità di autodeterminarsi da parte di Guidi.
Per i due esperti, la situazione che si era delineata il giorno del fatto “orienta verso un tipico deragliamento non su base psicotica, non dissociativa, bensì emotiva e passionale, e in cui, non va dimenticato perché dirimente, la donna era gravemente intossicata da sostanze, consapevolmente assunte, e di cui conosceva i possibili effetti, che possono avere slatentizzato l’agito“. I due hanno inoltre aggiunto di non avere “alcun elemento che ci porti, con criterio di alta probabilità, a pensare che la donna fosse già in una dimensione dissociata prima dell’inizio della sequenza che conduce a morte il piccolo”.
“Certamente – si legge, a tal proposito, nella perizia – è invece possibile affermare che una persona come la perizianda versasse in una condizione psichica in cui le capacità di intendere e di volere potevano considerarsi attenuate in un gradiente a ponte fra il lieve e il moderato, rispetto ad una concetto convenzionale di piena normalità, ma senza raggiungere quel valore di infermità tale da soddisfare il criterio di capacità grandemente scemata che identifica il vizio parziale di mente“.
Si tratta di “una situazione grigia” l’hanno definita i legali difensori della donna, gli avvocati Marcello Rambaldi e Alessio Lambertini, su cui ora dovrà esprimersi con una propria valutazione la Corte d’Assise.
Già durante l’udienza preliminare, i legali della donna avevano depositato una consulenza sull’esistenza di vizio totale di mente nell’imputata, chiedendo al giudice di disporre una perizia, ma la richiesta venne rigettata per questioni tecniche. Lo stesso fece il consulente della Procura, lo psichiatra Luciano Finotti, che – anche in quella circostanza – aveva evidenziato l’esistenza di una parziale assenza della capacità di volere nella 31enne, affetta da quello che venne inquadrato come un disturbo di personalità borderline, oltre che da problemi legati all’abuso di stupefacenti.
I fatti al centro del procedimento risalgono al 17 giugno 2021 quando, intorno alle 6 del mattino, la donna aveva allertato i carabinieri perché andassero nella sua casa, in via degli Ostaggi, dove una volta arrivati sul posto, i militari la trovarono in stato di shock e sanguinante.
Per la disperazione, infatti, si era da poco tagliata i polsi e agli uomini dell’Arma aveva ripetuto di aver ucciso lei il suo bambino e di volerla fare finita. Il piccolo si trovava sdraiato nel lettone dove aveva passato la notte insieme alla madre, immobile.
I sanitari del 118 provarono a rianimarlo per quasi 45 minuti, ma non ci riuscirono.
In casa con loro c’erano anche gli altri due figli, di 5 e 9 anni, che vennero poi affidati alla nonna, accorsa in via degli Ostaggi dopo essere stata avvisata con un messaggio via WhatsApp.
Poco prima, la donna – con un passato problematico con l’uso di stupefacenti e che i vicini raccontarono fosse parecchio agitata anche nei giorni precedenti – aveva cercato di aggredire i carabinieri, che con molta difficoltà e con l’aiuto dei colleghi della polizia di Stato riuscirono a bloccarla e accompagnarla all’ospedale di Cona per le medicazioni e l’assistenza psicologica del caso.
Il padre, un 38enne tunisino che da circa un mese aveva lasciato la casa familiare dopo alcune incomprensioni con la compagna, arrivò quando già il 118 aveva constatato che per il bimbo non c’era nulla da fare. Furono i carabinieri a informarlo della morte del figlio.
Nei mesi successivi al tragico fatto, poi, l’autopsia disposta dal pm di turno sul corpo del bambino aveva constatato come il decesso del piccolo fosse avvenuto per soffocamento da mezzo soffice, con la madre che sin dal primo momento è risultata essere la sola e unica indagata per il tragico evento.
Al momento, per via della grave situazione di fragilità psichiatrica in cui versa, la donna è ospite di una struttura.
Si torna in aula il 16 maggio per la discussione del processo, dopo che la stessa Guidi ha scelto di non parlare in aula.
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