Eventi e cultura
4 Dicembre 2023
Il professore tarantino presenta al Libraccio il suo ultimo libro accompagnato dalle domande di Paolo Veronesi (Unife) e dalla presenza del vescovo Gian Carlo Perego.

De Michele su Don Minzoni: “Merita un posto accanto a Matteotti e Gobetti”

di Redazione | 4 min

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di Pietro Perelli

“Don Minzoni non è ancora entrato nell’immaginario collettivo come merita, questo centenario spero gli dia quel posto che merita insieme a Matteotti e Gobetti”. Lo dice Girolamo De Michele a conclusione dell’incontro, al Libraccio, nel quale ha presentato il suo libro Un delitto di regime. Vita e morte di don Minzoni prete del popolo (Neri Pozza) accompagnato dalle domande di Paolo Veronesi (Unife) e dalla presenza del vescovo Gian Carlo Perego.

“La sua – dice il vescovo riferendosi al protagonista del libro – non è una morte semplicemente legata a un momento politico ma anche al suo impegno educativo per la libertà e la giustizia. Una morte che ha anche i connotati di un martirio”. “Questo libro – aggiunge Veronesi – parla di don Minzoni come se ne deve parlare”. “Collocando la ricerca in un percorso storiografico serio e non ripetendo nozioni già scritte in altri volumi rimestati” si trova un parroco “protagonista, suo malgrado, di un fatto storico di grandissima rilevanza”. “Quanto accadde – aggiunge il professore di Unife – dovrebbe essere una sorta di nodo al fazzoletto, in un paese che, parafrasando Pasolini, ‘non ha memoria’“, è “spesso considerata come storia minore” ma “non è così”. “Non fu un fatto locale, fu un evento imprescindibile per capire le fasi del consolidamento del regime fascista a partire dalla pianura padana”. 

E nel libro, e nella presentazione, De Michele cerca proprio di inserire il parroco di Argenta nel contesto storico nel quale si trova raccontandone la vita e le implicazioni che Ferrara e gli agrari hanno avuto per il successo del fascismo fino all’istituzione del regime guidato da Mussolini. Don Minzoni era “essere umano concreto che per due volte è stato tentato dall’amore”, un uomo che pensava che dove c’è il popolo la deve esserci il parroco”, nato a Ravenna (diocesi nella quale si colloca la parrocchia di Argenta) nel 1885, arrivò nel paese in provincia di Ferrara nel 1916 ma poco dopo partì per il fronte. 

Arriva a pensare che la Prima Guerra Mondiale “sia servita – spiega De Michele – per dare una spallata a questo mondo” dato che ne ha “mostrato il peggio”. Oggi sappiamo che si sbagliava ma il parroco pensava che al termine della guerra si potessero “realizzare quegli obiettivi della chiesa sociale di Romolo Murri”.

Torna ad Argenta poco prima che scattino le lotte dagli storici denominate “biennio rosso” che De Michele colloca, a differenza di altri storici ma in accordo con Paul Corner, tra il 1920 e il 1921 e non tra il 1919 e il 1920. Un periodo difficilissimo dove (il professore li tira fuori fisicamente da una busta) “un litro di latte, un chilogrammo di pasta e 600 grammi di pane è tutto ciò che un bracciante porta a casa”. È letteralmente quello che riesce a portare a casa con lo stipendio di una giornata di lavoro e “quando gli agrari si organizzano lo fanno per negare questo (indica il pane, ndr), i braccianti devono arrivare all’uso della violenza per ottenere questo. Questa è la posta in gioco tra socialisti e fascisti nel ferrarese”.

Don Minzoni vive questo periodo, lo vive impegnandosi per aiutare il popolo, “ha la mente dell’imprenditore” e fonda due diverse cooperative per aiutare i braccianti mentre parallelamente è impegnato nell’educazione dei figli di questi. Un’educazione che non è solo quella cattolica ma aiuta anche nei compiti del doposcuola mentre organizza il locale gruppo scout.

De Michele colloca l’inizio vero e proprio dell’antifascismo di don Minzoni nel momento in cui viene ucciso il sindacalista socialista Natale Gaiba ucciso da una squadraccia il 7 maggio del 1921 anche se, specifica, “qualunque atto di don Minzoni è anti fascista a partire dalla sua storia”. Alla morte di questo il parroco recita “un’omelia non neutra ma una chiara condanna a quello che è successo”. C’è poi anche in un’altra occasione nella quale insegna “l’educazione ai fascisti con le sue grandi mani”, quando uno di questi da un colpo sulla nuca a uno scout, movimento che ad Argenta stava avendo molto più esito dei Balilla.

Quest’ultimo evento avvenne a poche settimane dall’uccisione di don Giovanni Minzoni quando, dopo che Italo Balbo dice agli argentani che se ne devono occupare loro, arrivano due picchiatori da Casumaro. Inizialmente ospiti di Augusto Maran, il capo del fascio argentano, dopo il pestaggio si rifugiano da un partente di questo, Fioravanti. Sono le memorie di uno dei figli di quest’ultimo, divenuto prete, a svelare questo particolare.

Il processo che ne seguirà “sarà una farsa” e verrà utilizzato qualsiasi mezzo per “diffamare don Minzoni”. Gli vengono attribuite spese per l’acquisto di abiti femminili quando “stava mantenendo la vedova di Gaiba” oltre ai suoi figli che “partecipano alla resistenza nella brigata dove fu la partigiana Renata Viganó, per cui potete immaginarli ne L’Agnese va a morire.

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