La capra sulla rupe
13 Novembre 2023

Guardie e ladri

di Alessandro Chiarelli | 3 min

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Pochi giorni fa un giovane carabiniere si è dato la morte.

Mi auguro che un sentimento di consolazione e di pace possa un giorno lenire il dolore di chi è rimasto personalmente colpito da questa – ennesima – tragedia.

Dico ennesima perché il tasso dei suicidi tra gli operatori delle forze dellordine è circa il doppio rispetto a quello della popolazione italiana.

I dati dicono che se il tasso del suicidi in Italia e dello 0.60 per mille, esso sale all1 per mille tra gli operatori di polizia (e arriva all1.30 per mille tra gli agenti di Polizia Penitenziaria). Siamo al punto che il suicidio è la prima causa di morte connessa a questo specifico settore professionale. Siamo abituati a credere che i poliziotti rischino la morte mentre lottano con rapinatori, assassini e malavitosi e invece guarda un pò; le persone in divisa vengo uccise molto di più (in numero triplo rispetto ai caduti sul dovere) dal loro male interiore.

Ogni professione ha i suoi inevitabili fattori di stress ed ogni professione dovrebbe sviluppare specifiche forme di prevenzione e protezione dei rischi. Gli operatori di polizia – statistiche alla mano – sono evidentemente i meno equipaggiati a gestire il proprio rischio specifico. Pochissima prevenzione e nessuna formazione in riferimento alla gestione emotiva dei vissuti traumatici cui gli operatori devono far fronte da soli. Secondo alcuni articoli (quasi impossibile trovare dati statistici attendibili per organizzazioni che rifiutano di farsi guardare dentro) il tasso di depressione che affligge gli operatori di polizia sarebbe cinque volte più alto rispetto alla popolazione che non indossa luniforme.

I motivi sono molteplici ma è soprattutto la continua esposizione alla sofferenza ed alla violenza a costituire un enorme fattore stressogeno, che lungi dal trovare accolto, viene amplificato dalla ottusa rigidità delle dinamiche culturali e organizzative interne. Linattitudine a riflettere sulla salute emotiva dei propri appartenenti è una caratteristica pressoché costitutiva delle organizzazioni militarmente organizzate. Lidea che la riflessione su se stessi sia un fattore destabilizzante rispetto all’empirismo puro e perpetuo fa sì che questi ambienti siano completamente inconsapevoli della lesività delle proprie dinamiche. Nei corpi di polizia vige una sorta di lobbligo istituzionale a non avere paura, a non provare dolore, a non essere fragili. Peccato però che gli esseri umani abbiano paura, provino dolore e siano ontologicamente fragili. Questa sorta di socializzazione secondaria che gli appartenenti ai corpi di polizia subiscono, li rende spesso ciechi e sordi di fronte al proprio vissuto emotivo. Nel loro ambiente non c’è posto per la fragilità e loro fingono di non esserlo mai. Ma costringersi a negare il proprio dolore psicologico ammala lanima.

Date parole al dolore; il dolore che non parla, sussurra al cuore affranto e gli sussurra di spezzarsi. “William Shakespeare, Macbeth: IV, 3

Un problema non secondario è che poiché questo atteggiamento affonda le radici nei codici culturali di queste istituzioni, esso non può essere risolto dallinterno. I corpi di polizia non hanno nè il potere decisionale nè le risorse culturali per agire un cambiamento significativo. Solo la politica, semmai lo volesse, può favorire un cambio di paradigma rispetto alla arretratezza culturale che ammala le persone in uniforme. Ma non sembra che la cosa sia in agenda.

C’è unultima riflessione.

Non riesco a considerare casuale il fatto che lunica popolazione che soffre di rischi suicidari paragonabili a quello delle forze dellordine sia quella carceraria.

Ma il cortocircuito per il quale gli antagonisti nel conflitto sociale, le guardie e ladri, finiscono per essere entrambi portatori di un marchio speciale (di speciale disperazione diceva De Andrè), è solo apparente.

Ci racconta invece che chi vive vicino ai margini cade più facilmente di chi vive nel centro, dove la maggioranza sta.

La canzone poi continua.

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