
(foto di Marco Caselli Nirmal)
Non sono, non erano, dimissioni quelle di Mario Resca e del cda.
Era la volontà di rimettere il mandato nelle mani del sindaco Alan Fabbri e chiedergli – dopo l’oltraggio in ‘mondovisione’ – di dare fiducia a chi ha portato il bilancio della Fondazione Teatro Comunale di Ferrara a un attivo di mezzo milione di euro dopo anni di sofferenza. E lo ha fatto nell’anno più terribile di tutti dal punto di vista delle entrate, l’anno del Covid.
“Noi abbiamo richiesto la fiducia. Il nostro mandato è a disposizione del sindaco” ci ha confermato direttamente Resca.
Ma la risposta di Fabbri è stata – per chi sa leggere tra le righe – più che eloquente. Nel ringraziare Resca per il lavoro svolto e nell’assicurare – contro ogni rispetto per l’onestà intellettuale, per il lavoro svolto dal cda e per l’intelligenza dei ferraresi – di continuare a garantire “piena autonomia decisionale al teatro, per rispetto della Fondazione, per amore della libertà e delle diverse espressioni culturali”, Fabbri dà di fatto il benservito alla dirigenza.
Inutile a questo punto, come si aspettavano presidente e cda, attendere valide motivazioni per la sfiducia da parte del Municipio. Tutti sanno che non arriveranno.
Lo strappo istituzionale tra Fondazione Teatro Comunale e giunta leghista di Ferrara avviene tutto nell’arco di 48 ore. Il 10 dicembre il cda del presidente Mario Resca – cui è stato proposto dal Comune, socio unico, l’incarico di Moni Ovadia come direttore – approva, forte di una consulenza legale che lo metteva al riparo da possibili avventatezze economiche, il contratto e ne stabilisce compenso e durata.
A quella riunione, importante sottolinearlo, erano presenti il vicesindaco Naomo Lodi e l’assessore alla cultura Marco Gulinelli. Entrambi si dicono concordi con quanto espresso dal consiglio.
Il giorno dopo c’è la conferenza in pompa magna che annuncia l’arrivo del grande attore e regista teatrale. Si parla, di fianco a un Resca che rimane impietrito, di durata pluriennale e di accordi economici ancora da stabilire. In conferenza, silenti e consenzienti, Lodi e Gulinelli. Immaginiamo le ragioni: il primo non ha capito su cosa concordava. Il secondo doveva ancora farsi ordinare su cosa concordare.
Per capire le cifre del problema bastano pochi numeri. Il Teatro proponeva un anno di incarico per un importo attorno ai 50mila euro. Offerta rifiutata da Ovadia (al momento non esiste ancora un contratto firmato), che ha preteso il doppio più rimborsi spese. Per almeno tre anni.
Ma dalle parti della giunta non sono abituati ad avere a che fare con schiene dritte. E con voci che dicono “io ho accettato un incarico, non ho accettato degli ordini”. È il laconico Resca a parlare. Poco, per carità. La sua loquacità farebbe concorrenza a uno spartano circondato da iloti.
Ma parla quanto basta per ricordare che “ero felice che mi avessero chiamato ad aiutare Ferrara. Questa è la mia città. Ma io vengo dal mondo dell’impresa, ho lavorato per multinazionali, per le più importanti aziende del nostro paese e per il governo. Avrei potuto fare una enorme carriera politica, ho anche rifiutato di fare il ministro pur di fare il lavoro che amo, divulgare cultura. So che dirigere una pubblica amministrazione comporta delle responsabilità. E appena ho visto i bilanci passati ho imposto che venissero ripianati. Pena portare i libri in tribunale”.
Insomma, un manager con le idee chiare, le capacità affinate in decenni di esperienza e la voglia di mettersi a disposizione della collettività. Ma per i palati leghisti mancava qualcosa. Lo vedremo in seguito.
Per capire cosa è successo in questo “pasticciaccio brutto” di Corso Martiri bisogna risalire, per continuare a fare il verso a Gadda, alla “buccia delle cose”.
Si può andare, come farebbe il buon Don Ciccio Ingravallo del romanzo, per esclusione. I motivi non sono ideologici. Resca, manager di caratura internazionale, per quattro anni dirigente al Ministero dei beni culturali sotto governi di centrodestra, è un liberale. Un liberale – aggiungo il piacevole tratto autobiografico che mi ha confidato il diretto interessato – “che si è fatto con le proprie mani, senza chiedere niente a nessuno, fiero del padre tuta blu”.
I motivi non sono economici. Come detto, Resca è riuscito nell’impresa di far arrivare importanti sponsor privati e di risollevare una impresa culturale in estrema difficoltà senza l’apporto del pubblico e degli abbonamenti.
A tutto questo aggiungiamo il fatto che, forse non tutti lo sanno, Resca ha lavorato per più di un anno senza pretendere un euro. Un manager conteso dalle più importanti imprese nazionali e da compagini multinazionali ha prestato servizio per Ferrara a costo zero: “Non ho chiesto il rimborso nemmeno di un caffè”. Se pensiamo che in cima allo Scalone municipale manteniamo a suon di centinaia di migliaia di euro all’anno persone che non valgono nemmeno la cacca della “torva e a metà spennata gallina” (nessun si offenda, si cita sempre Gadda), possiamo capire il danno per la comunità di questa sfiducia.
E allora cosa rimane? Lo lascio dire a Resca. Rimangono “le cose bellissime che abbiamo fatto”, le “63 alzate di sipario”, gli spettacoli in streaming, le produzioni d’eccellenza, “il lavoro preziosissimo dei nostri dipendenti, fieri di essere le colonne del teatro cittadino”.
E al sindaco cosa resta? Un posto in più per inserire un altro yesman. A spese della comunità. E i soliti slogan su Facebook, buoni per la claque leghista. In fondo conta solo apparire. Basta che gli elettori ci credano altri cinque anni.
Lascio riemergere dalle quinte ancora Resca: “mi spiace per Ferrara. Ancora una volta vedo che cambiano i suonatori ma non la musica. Sono deluso”.
E ora che il sipario si chiuda. Senza applausi.
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