di Simone Pesci
“Io, numero 76483, ho vinto. E, come me, hanno vinto tutti quelli che sono tornati”. L’io non è una persona qualsiasi, ma è Andra Bucci, all’anagrafe Alessandra, che giovedì mattina ha raccontato la sua esperienza del campo di concentramento di Auschwitz agli studenti delle scuole in Comune. Con lei doveva esserci la sorella Tatiana, che però ha dato forfait all’ultimo a causa di problemi famigliari.
Era il 28 marzo del 1944, quando a Fiume – che ora è Rijeca ed è in Croazia – “fummo arrestate io, Tatiana, nostro cugino Sergio e altri 5 famigliari”. “La prima notte – ricorda Andra – la passammo a Susak, poi il giorno dopo fummo trasferite alla Risiera di San Sabba di Trieste. Ricordo la cella piccolissima dove stavamo in 8, pochi giorni dopo partimmo per Auschwitz”. Il viaggio in treno, su un vagone bestiame e, dopo diversi giorni l’arrivo: “Ricordo che era il 4 aprile del 1944 e faceva -12: scesi dal treno la prima selezione, mia nonna e mia zia a destra furono gasate quella notte; noi a sinistra entrammo nel campo a piedi. Fummo rasati e disinfettati”.
Nel suo anno di permanenza ad Auschwitz Andra ricorda così la vita nel campo: “Restammo nella baracca dei bambini io, Tatiana e Sergio. Avevamo tutti i nostri letti a castello e non dovevamo fare l’appello. Uscivamo solo quando gli altri erano andati a lavorare, e tornavamo prima: molti sopravvissuti, infatti, non ricordano che nel campo ci fossero bambini, nessuno ci vedeva”.
“Giocavamo a palle di neve in mezzo ai cadaveri – prosegue -. Erano tutti ammassati, perché bruciarli richiedeva tanto tempo. Se chiudo gli occhi rivedo la ciminiera dove giorno e notte uscivano fumo e fiamme: i crematori erano sempre in funzione, ricordo ancora l’odore della carne bruciata”. Un altro aspetto che Andra racconta è quello del terreno, che “era coperto di cenere e non c’era erba”, e che “quando pioveva era impossibile muoversi per via del fango”, anche per il fatto che “io avevo una scarpa molto più grande e dovevo stare con il piede rattrappito”.
Giunti a questo punto Andra sorprende tutti: “Non ricordo sofferenza. Noi bambini non capivamo e abbiamo vissuto il periodo della prigionia serenamente. Un bambino non ha paura della morte perché non sa cos’è”. E sul tatuaggio afferma: “Non l’ho mai voluto cancellare perché non l’avrei potuto eliminare dalla mia mente, fa parte di me e del mio vissuto”.
La morte, che invece prese Sergio, quando aveva solo 7 anni. “Io e Tatiana sembravamo gemelle, eravamo state prese in simpatia dalla blockova, (l’addetta alla sorveglianza della baracca dei bambini, ndr). Un giorno lei ci disse che sarebbero venuti nella baracca a chiedere chi volesse rivedere la madre e ci raccomandò di rimanere fermi. Lo dicemmo a Sergio, ma lui fece un passo avanti. Fu preso insieme ad altri 19 dal dottor Mengele e i suoi uomini; fu trasferito in un altro campo e fu ucciso dopo aver subito delle torture”. Ancora oggi, rivela Andra, “mi assalgono dei sensi di colpa”, e quando “mi chiedo perché abbiamo ascoltato la blockova mi dico che era perché non vedevamo più nostra madre: all’inizio veniva a trovarci, magrissima, e ci ricordava i nostri nomi. Ci abbracciava, ma eravamo restie perché non la riconoscevamo più. Dopo un po’ non è più venuta, la credevamo morta”.
Dopo la liberazione Andra e Tatiana passarono un anno a Praga “in una specie di orfanotrofio perché non c’era affetto”, e uno in Inghilterra, nel Surrey “dove un ebreo aveva fatto questa casa per noi bimbi sopravvissuti: ricordo l’immensa sala giochi”. E poi il ritorno in Italia. “Mamma e papà tornarono a casa e ci cercarono. Riuscirono a risalire a noi e fummo riaccompagnate a Roma da un’assistente sociale: quando ci salutò ci mettemmo a piangere, forse perché avevamo paura di ricominciare la nostra vita. Avevamo dimenticato l’italiano, con mamma parlavamo in tedesco, con papà in inglese e fra noi in ceco”. Da lì fino a Trieste, nel 1947. Dove Andra e Tatiana ripresero “una vita normale, perché la vita è bella e va vissuta”.
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