Cronaca
11 Marzo 2014
La Corte d'Assise condanna i suoceri a cinque anni per maltrattamenti

Sposa bambina, non fu riduzione in schiavitù

di Marco Zavagli | 4 min

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unnamed36Si è concluso con la condanna a cinque anni a entrambi gli imputati, i suoceri della vittima, il processo davanti alla Corte d’Assise che vedeva come parte offesa una “sposa bambina”.

I giudici hanno derubricato gli originari capi di imputazione (sequestro di persona e riduzione in schiavitù) in maltrattamenti in famiglia.

La storia, che pare catapultata ai giorni nostri da secoli lontani, nasce quando la vittima venne venduta in moglie da sua madre quando aveva appena 14 anni. La sua vita valeva 60.000 mila euro. Tanto la pagarono i suoi futuri suoceri. Da allora è stata una storia di umiliazioni e pestaggi. Costretta a fare l’elemosina, minacciata di essere mandata sulla strada a prostituirsi, picchiata perché aveva alzato la voce contro il marito, anzi contro il suo padrone.

La sua vicenda diventa nota quando finalmente, dopo aver subito un pestaggio ad opera del coniuge e del suocero trova il coraggio di denunciare quanto accaduto. Cosa non facile, anche perché non aveva il permesso di uscire da sola da casa e nemmeno di chiamare i parenti senza consenso. Quella volta però era rimasta in casa da sola e ha approfittato della rara occasione.

Era il 19 dicembre del 2012 quando l’ormai 23enne avverte i carabinieri. Sono le 13.30. Agli uomini del nucleo operativo e radiomobile di Verbania racconta in lacrime e spaventatissima di essere stata picchiata e di essere rinchiusa in un appartamento in una zona che non conosceva, non essendo mai uscita di casa. Ai militari riesce solo a indicare il numero civico, ma non la via. Con lei ci sono i suoi tre bambini. Grazie al nome dei familiari i carabinieri riescono a rintracciare il luogo della chiamata d’aiuto, Gravellona Toce. La telefonata è partita da un’utenza mobile svizzera. Grazie al coordinamento con le forze di polizia elvetiche si risale al titolare dell’utenza e quindi al luogo della presunta segregazione.

Al loro arrivo i carabinieri trovano il marito, un 28enne di nazionalità kosovara (così come la moglie, anche se per l’ordinamento italiano sono solo conviventi) con precedenti penali in Svizzera per detenzione di armi e reati contro il patrimonio. Alla vista del dispiegamento di forze la ragazza ha perso i sensi. Solo una volta rinvenuta, dopo che l’ambulanza l’aveva portata in ospedale (per lei sette giorni di prognosi), ha raccontato la sua storia.

La vittima è nata in Kosovo. Rimane orfana di padre a 5 anni. Quando raggiunge i 14 anni, la famiglia (la madre, lei e i due fratelli) si trasferisce in Puglia. Qui conoscono i connazionali che diventeranno i suoi futuri “proprietari”. Stipulano il prezzo delle nozze: 60mila euro. Da allora inizia il suo calvario. È il 2004. Con il marito va a vivere a Pieve di Cento. Iniziano subito i maltrattamenti. Anche quando era incinta del terzo figlio.

Nel 2007, stanca di essere costretta a fare l’elemosina davanti ai supermercati, con tanto di percosse se non avesse portato a casa abbastanza soldi, trova il coraggio di fuggire. Trova un aiuto da una signora del luogo, che le compra il biglietto del treno per raggiungere la sorella, rimasta in Puglia. Qui ‘resiste’ per circa un mese. Dopodiché si riappacifica con il coniuge che la viene a riprendere. I due ottengono lo status di rifugiati politici in Svizzera e nel 2008 valicano le Alpi. Qui l’uomo ha dei guai con la giustizia e finisce più volte in carcere.

Dopo quattro anni la riporta in Italia, a Gravellona Toce, in provincia di Verbania, dove vivono i genitori di lui e il fratello. È il 15 dicembre del 2012. Da quella casa uscirà solo il giorno della denuncia (da allora vive con i tre figli in una comunità protetta). La sera prima, il 19, in un impeto di gelosia (“credevo che avesse un’altra e che mi avesse portato in Italia per stare vicino a questa donna”) lei lo offende. L’uomo, per tutta risposta, la prende per una spalla, quasi lussandola, la sbatte per terra. Come una furia è sopra di lei. Le prende la testa per i capelli e la sbatte sul pavimento. Più volte. In casa ci sono i suoi suoceri. La donna incita il figlio a “farla scoppiare” di botte. E intanto chiude la porta a chiave. Ma lei urla disperata. Allora il padre le tappa la bocca con una mano e con l’altra la colpisce al volto.

Arriva anche il cognato, che la porta in camera e la lascia per terra. Qui si risveglierà dolorante il mattino dopo. Di nascosto dal marito prende il telefono e chiama il 112.

L’uomo è già stato condannato in patteggiamento lo scorso settembre a 3 anni e 9 mesi per maltrattamenti. Ora per processo a Ferrara la difesa annuncia il ricorso in Corte d’Appello d’Assise.

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