“Non tornerei a Cona nemmeno per morire”. Questa l’amara conclusione con cui si chiude la lettera inviata alla redazione da una giovane donna ferrarese, che pochi giorni fa ha perso il bambino che stava aspettando. Preoccupata a causa di alcune perdite, la giovane spiega di essersi recata – su suggerimento della propria ginecologa – direttamente al pronto soccorso ginecologico, “senza passare da quello generale, altrimenti ci resti un’eternità”. Attorno alle 9 di mattina l’arrivo in ospedale, insieme al proprio compagno: “arrivati dopo un lungo cercare tra un blocco e l’altro, passando da innumerevoli porte tagliafuoco con accanto nomi di reparti resi indecifrabili, e attraverso un piano dove logicamente abbiamo scoperto esserci pure un solarium, troviamo la reception. Con l’ansia che si può immaginare, davanti a una bellissima scrivania adornata da coloratissime farfalle e con in cima una simpatica cicogna formato gigante… nessuno. Anzi: un lucidissimo campanello da hotel. Suono e arriva un’ostetrica”. Sembra un gioco – il labirinto, gli enigmi da decifrare, livelli successivi da superare -, ma purtroppo non c’è nulla di divertente nella ricerca affannosa di chi teme per la propria salute e per quella della creatura che porta in grembo.
La tragica avventura continua: la donna racconta di essere stata indirizzata verso la sala da aspetto – “su delle comode sedie di plastica… di quelle da giardino” – e di avere atteso per oltre due ore. Poi le generalità, gli esami del sangue, l’ecografia: “non è così divertente stare in un lettino da ginecologo con un ragazzino che ti visita quasi stesse sostenendo un esame, con il medico di turno che intanto gli spiega cosa e come fare. Poi mi si dice che c’è la sacca gestazionale, che sono incinta da sei settimane ma che non c’è battito, che solo con i risultati degli esami del sangue riusciranno a dirmi con più chiarezza il mio stato, anzi: lo stato del mio bambino”.
Mentre cresceva la paura cresceva anche il dolore fisico: aumentavano le perdite, la schiena incominciava a fare molto male, come pure i reni. Alle 13 un secondo colloquio: “un’altra dottoressa mi legge gli esiti e dice che l’Hcg è inferiore a 1 e attesta che non sono incinta. E la sacca gestazionale che vedevano senza battito? E il mio test positivo? Mi rifanno il prelievo e anche l’Hcg perché il dato rilevato è senza ombra di dubbio anomalo e improbabile”. Alla coppia viene fatto sapere che nel giro di un’ora avrebbe avuto ulteriori notizie, ma di ore ne passano tre: “mai nessuno che venga a chiedermi come va, infermieri che vanno e vengono, dottori che passano e ripassano. Sono le 16 o 16.30, abbiamo perso la cognizione del tempo, e ormai il mio morale e quello del mio compagno sono letteralmente sotto i piedi. Non riesco a smettere di piangere e così disperata, sconvolta da tanta indifferenza, mi dirigo verso gli ambulatori”.
La giovane chiede informazioni ma non ne riceve, passa un’altra ora. Si arriva finalmente al dunque: “tocca a me, entro e mi siedo. La dottoressa – l’unica molto gentile – dice che il mio Hcg è anormalmente inferiore ad 1 e quindi come il precedente, impossibile. Mi rifà l’ecografia e rivede la sacca gestionale. Dice che naturalmente ho abortito e che non ci sarà bisogno di interventi. Si risolverà tutto con un paio di giorni di riposo”.
Il racconto termina con tanti punti domanda, e un solo punto a capo: “non scrivo per incolpare nessuno; forse doveva andare cosi. Ma oggi io continuo a domandarmi… chi fa il medico non dovrebbe avere la vocazione? Un pronto soccorso non si chiama così perché soccorre le persone? Nelle mani di chi siamo? Di una cosa sono certa: non tornerei a Cona nemmeno per morire”.
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