
Una ex dipendente Standa mostra il suo assegno: 40,48 euro
Era il 1999. Il 6 maggio. I 33 dipendenti della Standa di viale Cavour, dopo tre mesi senza stipendio si videro recapitare una lettera. Una lettera di licenziamento. Siamo nel 2012. Sono passati 13 anni da allora (con tanto di proteste in piazza, chilometri di carte bollate, ricorsi e appelli in tribunale e pretese – quantificate dai sindacati – di migliaia di euro tra arretrati, ferie non godute e interessi) e i 33 dipendenti ricevono un’altra lettera. Dentro c’è un assegno. Quello che liquida definitivamente le loro competenze.
Ma la somma ha il sapore della beffa più irriverente che un lavoratore possa immaginare. Il tribunale di Roma, competente nella procedura fallimentare dell’azienda, riconosce loro poche decine di euro. Per la precisione si tratta di somme che vanno dai 35 ai 70 euro.
L’incredibile epilogo ha radici lontane. Che risalgono all’impero finanziario di Silvio Berlusconi. Nel 1998 l’uomo di Arcore cedette il gruppo Standa alla Center Adriano Srl, che fa capo al gruppo Roccetti spa. La nuova proprietà non impiega molto a far parlare di sé. Da marzo ’99 i dipendenti non vedono più lo stipendio. Di lì a poco i grandi magazzini chiuderanno i battenti. Lasciando senza lavoro 33 persone a Ferrara e circa 200 in tutt’Italia, contando le altre cinque filiali disseminate per la Penisola.
I lavoratori cercano di far valere le proprie pretese attraverso i legali di Cgil, Cisl e Uil. Gli avvocati Anna Rossini, Raffaella Parizzi e Giuseppe Caligiuri intentano una prima causa contro la Center Adriano. Persa. Nel frattempo agiscono con un’azione esecutiva per pignorare i beni del creditore. E qualcosa ottengono. Ogni dipendente riceverà qualche migliaio di euro. Questo nell’interregno tra la constatazione del crac (il fallimento verrà dichiarato con sentenza il 18 maggio 2000) e la nomina di un curatore fallimentare. Il curatore, come dispone la legge, deve rientrare delle masse patrimoniali distratte e agisce con azione revocatoria per riavere indietro quanto pignorato. I legali di Cgil, Cisl e Uil impugnano la sentenza di primo grado e, nelle more dell’appello, propongono una transazione. Un escamotage per non dover restituire per intero quanto faticosamente conquistato.
La transazione comporta il versamento di 100mila euro (la somma pretesa dalla controparte era di circa 150mila), la rinuncia all’insinuazione al passivo fallimentare, l’abbandono del giudizio di appello, l’abbandono di ogni altra pretesa nella vicenda.
Intanto si attendeva l’esito della procedura fallimentare che avrebbe – una volta stabilito il piano di riparto finale dell’attivo con le somme spettanti in proporzione a ogni creditore – dovuto risarcire i lavoratori. Ora, con buona pace dei tempi della giustizia civile italiana, quell’ora è arrivata. Dopo 13 anni. E la giustizia, per i 33 dipendenti, ha la forma rettangolare di un assegno. Con sopra una cifra irrisoria. La cifra dell’ennesimo scandalo all’italiana.
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