di Maria Paola Forlani

Mussolini posa per il pittore Gaudenzi
Nei primi anni Trenta, all’estero, l’indice di gradimento del fascismo appariva saldo nelle dichiarazioni di artisti e critici. Le Corbusier diceva di avere “un grande desiderio di venire in Italia, veder l’Italia [ e ] Mussolini”, il critico dell’avanguardia Tériade ricordava che Mussolini sembrava incoraggiare in maniera considerevole il giovane movimento pittorico in Italia, mentre Waldemar George, influente e stimato scrittore d’arte, confermava la solidità del regime, la sua capacità di coordinamento degli sforzi, di dare lavoro e pane a tutti gli italiani, anche agli artisti.
La mostra a Firenze di Palazzo Strozzi “Anni Trenta. Arti in Italia oltre il fascismo”, a cura di Antonello Negri con Silvia Bignami, Paolo Rusconi, Giorgio Zanchetti e Susanna Ragionieri, aperta fino al 27 gennaio 2013, prova a raccontare un tramonto attraverso un esercizio di equilibrio. Tramonto perché dopo la seconda guerra mondiale anche l’arte non è più stata quella di prima, nonostante la conclamata unitarietà – accademicamente parlando – di un’età che dall’illuminismo arriverebbe all’oggi. Accanto a tali approcci, un quadro più completo sulle arti negli anni Trenta in Italia deve anche offrire una panoramica delle altre forze che influenzavano il prodotto artistico, non necessariamente conflittuali con il fascismo ma non completamente integrate nello Stato: come le gallerie private, il collezionismo e alcuni gruppi di giovani le cui pratiche spesso sfuggivano alle maglie di controllo, del consenso e della coercizione politica.
Giuseppe Bottai, ministro dell’educazione, avrebbe avviato alla fine del decennio un innovativo piano in grado di riformare il rapporto tra Stato fascista e i diversi interlocutori di un sistema moderno delle arti e, insieme, di contenere le spinte di cambiamento richieste dai giovani sia sul piano organizzativo che su quello linguistico. I curatori della mostra hanno condotto la selezione delle opere seguendo tre condizioni essenziali: che i dipinti e le sculture scelte fossero stati – negli anni Trenta – presentati in sedi e occasioni espositive importanti come le biennali, le quadriennali, le triennali, le mostre sindacali oppure, sul volgere del decennio, i premi Bergamo e Cremona.

Antonio Donghi
Dunque lavori davvero visti e discussi, celebrati o criticati, nel vivace percorso espositivo e restituiti soprattutto nelle sale dedicate ai centri artistici – sbocco di una lunga tradizione regionalista o localista – e ai giovani, cui doveva toccare il compito di rinnovare la modernità italiana con muove forme espressive. I curatori della mostra hanno tenuto conto infine dei punti di vista di interpreti storici dell’arte di allora come Giovanni Scheiwiller, Margherita Sarfatti, Edoardo Persico, ma anche Raffaele Carrieri per il côté più giovanilistico. Tra le prime sale – imperniate su alcuni centri primari di attività e irradiazione come Milano, Roma, Torino, Firenze, e sui giovani appunto – e le ultime, dedicate a una visione più ravvicinata del contesto artistico fiorentino, la mostra si concentra su alcuni temi chiave.
Si comincia con gli scambi della cultura artistica italiana con i centri stranieri, Parigi in primo luogo, raccontati attraverso casi emblematici: naturalmente lavori degli Italiens de Paris, ma anche quadri e sculture che aggiornano lo storico dialogo Italia-Germania. Tra essi il “Complesso onirico” di Vinicio Paladini, il quale restituisce esemplarmente l’idea della circolazione europea dei modelli, tra il modernismo tedesco alla Bauhaus e il surrealismo di impronta francese. L’arte pubblica, una delle grandi questioni degli anni Trenta nelle sue declinazioni della pittura murale e della decorazione plastica per edifici, viene documentata nella mostra fiorentina da lavori preparatori di: Carrà, Funi, Martini, Severini, Sironi.
Nel tema conclusivo di questa parte del percorso si riaffaccia una sorta di parallelismo tra Italia e Germania. Il raffronto di un capolavoro di arte nazista come
“I quattro elementi” di Adolf Ziegler – mai esposto in Italia, ma famosissimo nella Germania d’allora – con acquarelli dei “degenerati” Groz e Dix, fa emergere il violento scontro ideologico tra fascismo e antifascismo che ha segnato l’epoca, annunciando sinistramente la guerra: nell’Italia delle leggi razziali del 1938.
Come non ricordare negli anni Trenta fondamentali studi e mostre di arte antica tra cui l’Esposizione della pittura ferrarese del rinascimento a Palazzo dei Diamanti nel 1933. Proprio nel 1933 fu celebrato il quarto centenario della morte di Ludovico Ariosto e per quell’occasione la città di Ferrara realizzò un articolato e ricco programma di iniziative tra cui spiccava la grande mostra estense. Che però non godette dei tempi necessari per approfondimenti e ricerche, come richiesto a gran voce da Adolfo Venturi, autore di saggi sulla pittura ferrarese del XV e XVI secolo.
Il regime fascista – da poco affermato – volle infatti utilizzare le iniziative in programma per le celebrazioni come manifesto per presentare l’interesse verso la cultura e la tradizione del loro governo. Il curatore della mostra del 1933 fu Nino Barbantini, non uno studioso del settore, ma capace ed esperto organizzatore che saggiamente si affiancò dal punto di vista scientifico in parte a Venturi ma soprattutto a Bernard Berenson, studioso americano del Rinascimento italiano.
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