
Cabernardi, veduta generale della miniera, anni Venti. Sullo sfondo il paese di Cabernardi (dal sito http://www.storicamente.org/05_studi_ricerche/verdini.htm)
Anniversario marchigiano a Pontelagoscuro, per ricordare la lotta operaia dei “sepolti vivi”, conclusa esattamente sessant’anni fa. Per le famiglie degli immigrati provenienti da Cabernardi, giunte ormai alla seconda e terza generazione, il 5 luglio non è un giorno come tanti altri: è il giorno in cui i 400 minatori che scioperavano nelle gallerie per fermare i licenziamenti della Montecatini decisero di riemergere dalla terra. L’industria dello zolfo, per la quale lavoravano, aveva stabilito 860 “tagli”: la protesta durò 40 giorni, nel buio polveroso della miniera, a 510 metri di profondità, e riuscì quasi a dimezzare l’entità dell’operazione. “L’Unità” definì quell’evento “I sepolti vivi escono vittoriosi”, anche se a distanza di anni il dibattito sulla qualità della conquista ottenuta è ancora aperto (fonte: Storicamente, rivista di storia on line, http://www.storicamente.org/05_studi_ricerche/verdini.htm).
L’azienda licenziò 400 persone, ne pensionò un centinaio, e inviò 300 operai verso quello che all’epoca era considerato l’astro nascente dell’industria ferrarese, il petrolchimico. Pontelagoscuro prima di quel trasferimento era poco più che un paesino di campagna: stade di fango e campi di barbabietole. L’arrivo dei minatori marchigiani fu determinante per lo sviluppo sociale e urbano della frazione e, in ragione di questo, è facile capire come il 5 luglio rivesta tutt’ora –a così tanti chilometri di distanza rispetto il fulcro della vicenda, Cabernardi – un significato speciale.
L’identità del migrante, specialmente quando la partenza non è solitaria ma in gruppo, difficilmente riesce a slegarsi dalla memoria storica del paese natale. Dalle numerose interviste svolte per la ricerca “Migrazioni fra luoghi e culture. Le minierie di Cabernardi, il Limburgo belga e Pontelagoscuro negli anni ‘50”, curata da Lilith Verdini, si intuisce quanto vivido sia ancora per tanti ex dipendenti il ricordo delle miniere lasciate alle spalle, come pure la difficoltà di integrarsi in un territorio nuovo. “Ci dicevano magnabietul” spiega un’ex dipendente della Montecatini, in riferimento al risarcimento che l’azienda dovette pagare ai proprietari dei campi coltivati attorno al petrolchimico, dai quali gli operai marchigiani – “armati” di coltellino – raccoglievano le verdure.
La commistione tra la comunità autoctona e il gruppo marchigiano è avvenuto per gradi, come bene racconta lo spettacolo “Il paese che non c’é”, ideato e realizzato dal gruppo di teatro comunitario di Pontelagoscuro. Nella frazione dove una volta crescevano solo le barbabietole, diventata poi famosa come uno dei più vasti e produttivi poli industriali dell’Italia settentrionale, attualmente le panetterie vendono quotidianamente – accanto alla locale “ciupeta” ferrarese – la filetta marchigiana. Un’abbinamento inconsueto di cui, per scoprire l’origine, è appunto necessario guardare indietro nel tempo, ripercorrere a tappe la nascita e lo sviluppo della comunità locale, e ancora prima capire cosa successe a Cabernardi esattamente sessant’anni fa.
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