“Tutte le volte che passo di lì penso a quel giorno”. Sono passati 75 anni e ancor oggi Albina Brunetti, classe 1927, ricorda quei fatti che segnarono per sempre Ferrara. E ne parla per la prima volta a un giornale.
Albina non fu testimone oculare dell’Eccidio del Castello (immortalato da Vancini nel film “La lunga notte del ’43” proiettato sul luogo della tragedia lo scorso 15 settembre), ma in corso Roma (l’attuale Martiri della Libertà) arrivò poco dopo. “Nell’agosto del 1943 feci un colloquio presso la Banca Nazionale dell’Agricoltura e venni assunta. Iniziai a lavorare nella sede di via Cairoli”.
Tutte le mattine l’allora sedicenne prendeva la sua bici, partiva da Porotto, dove abitava con la madre e una sorella, e arrivava di fronte al Castello. “Quel giorno, erano circa le 8.15, appena passata la curva notai tanto sangue per terra. Poi vidi i corpi, buttati lì così, tra il marciapiede e la strada, come fossero stracci. Nemmeno i volti avevano coperto. ‘Che succede’, chiesi a una guardia in uniforme? ‘Circolare circolare’, fu la brusca risposta”.
Poi, una volta in ufficio, il terrore non si attenuò. “Chiesi a tutti se avessero visto, se avessero capito cosa fosse successo. ‘zitta, zitta, non fare domande’”.
Di lì a pochi minuti i soldati entrarono nella banca e ordinarono “tutti fuori”. “Iniziarono a far uscire i miei colleghi due alla volta. Avevamo paura di fare la stessa fine di quelle persone. Il nostro direttore, credo di ricordare si chiamasse Aleotti, riuscì a far uscire me e le dipendenti più giovani per un passaggio secondario che portava in corso Giovecca. Da lì corremmo verso casa”.
La giovane dipendente, costretta a crescere troppo presto, non si rese conto di cosa fosse successo. “C’era poco da capire. Quando ammazzavano, ammazzavano. Nei giorni precedenti, in piazza Trento Trieste, una domenica, salutai un mio amico. Aveva la faccia triste. Era attorniato da signori vestiti di scuro. Seppi poi che lo avevano appena arrestato. Non lo vidi più”.
Albina Brunetti in una foto scattata da ragazza
Venne quindi il giorno dopo l’eccidio. “Il giorno dopo andammo tutti al lavoro come se niente fosse successo. Avevamo paura anche a comunicare tra di noi. Seppi molto tempo dopo cosa fosse realmente accaduto”.
La memoria di Albina corre come la sua bici, quando fuggiva lungo via Rossonia ad ogni scattare di allarme bombardamento. “Una volta mi salvò mio padre, che mi incrociò lungo la strada. Partì una raffica di mitragliatrice, mi gettò dentro un fosso e si buttò sopra di me per proteggermi. Andò bene. Finito l’attacco andai subito in ospedale, dove lavorava mia mamma come infermiera. Quando mi vide viva e vegeta le si aprì il cuore in un sorriso a metà. Non sapeva ancora se anche mia sorella fosse salva”.
E quella fu la sua vita, fino all’aprile del ’45. “Ricordo il vescovo Ruggero Bovelli che scrisse agli Alleati di non bombardare Ferrara. Ormai i tedeschi erano fuggiti. E allora arrivò la carovana della Liberazione, senza sparare un colpo di fucile e lanciando invece caramelle, cioccolata e bandierine”.
Pochi mesi dopo Albina si fidanzò con l’uomo che diventerà suo marito, e dal quale avrà due figlie. “Ogni volta che passo davanti a quel muretto racconto alle mie figlie e alle mie nipoti cosa successe. Sono ricordi terribili. Ma loro devono sapere”.
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