Eventi e cultura
16 Ottobre 2022
L'autore si innamorò della storia di Israele sui banchi di scuola. “Questo libro è una restituzione”. Intanto è già al lavoro per il terzo

Attraverso il fuoco, dopo 11 anni il secondo romanzo di Gabriele Rubini

di Marco Zavagli | 4 min

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C’è un fuoco che attraversa almeno tre continenti. Tre continenti attraversati dalle storie di cinque famiglie. Cinque famiglie ebree, le cui vite si intrecciano come versi di salmo. E a tesserle, con il fuso ben saldo del romanzo storico, è Gabriele Rubini.

“Attraverso il fuoco” è la sua seconda fatica, uscita di recente per i tipi di Nardini Editore, e segue a distanza di dieci anni il primo libro. Allora, in “Generazioni 1881-1907”, la trama era fatta esplodere da una mano rivoluzionaria. I fatti prendevano vita all’indomani dell’uccisione dello Zar Alessandro II ad opera di Narodnaja Volja, che provocò una feroce ondata di progrom in tutto l’impero.

Per sfuggire alle violenze antisemite cinque famiglie si rifugiarono chi in Europa (Italia, Francia, Inghileterra), chi in America. Ci fu anche chi rimase nel calderone che stava per scoppiare con la Rivoluzione d’Ottobre.

Quelle stesse famiglie (i Lanzmann in Francia, i Jacobi in Russia e in America, i Laniado in Inghilterra e i Morpurgo in Italia) sono le protagoniste di questo secondo romanzo, che si dipana temporalmente da dove si è fermato il precedente, nel 1907, al primo conflitto mondiale. Ma non sono le uniche protagoniste.

Accanto e attorno a loro c’è la contemporaneità di un mondo datato un secolo fa, con i protagonisti famosi e con quelli sconosciuti. Una platea corale selezionata dall’autore con lo scrupolo di un mosaicista.

In attesa della prima presentazione ferrarese, attesa per sabato 5 novembre alla libreria Ubik in via San Romano, Rubini racconta la genesi di questa opera.

Gerusalemme non era una città, non era un luogo, non era case e strade. Gerusalemme era un’emozione, una sensazione”

“Attraverso il fuoco” è, idealmente, un libro nato sui banchi della terza media. Nato a Nuoro nel 1967, ferrarese di adozione, l’autore è un appassionato studioso di storia, soprattutto del Medio Oriente. Ha vissuto per circa un anno in Israele, presso il kibbutz Ghivat Brenner, prima di laurearsi in Storia americana e intraprendere la carriera di export manager in un’azienda del bolognese.

E gran parte della sua vita è stata condizionata da quanto apprese a 13 anni. “I libri di testo parlavano della Shoah. Quanto appresi mi colpì enormemente, tanto che all’esame finale portai una tesina sull’Olocausto. Da allora non ho mai smesso di interessarmi all’argomento. Da allora la mia tensione era verso il tentativo di provare a restituire un favore: ero grato a quegli autori che mi davano emozioni. Ho provato a fare qualcosa del genere”.

E il primo tentativo di restituzione, come detto, è stato “Generazioni”. “Tra il primo e il secondo libro c’è un intervallo di dieci anni. Dieci anni di pensiero, ricerca e scrittura. Anche se i due libri sono nati insieme nella mia testa. Ero partito con un’idea iniziale che poi mi è esplosa in mano.

Prima questa famiglia ebraica russa che doveva dar vita a una diramazione americana e una palestinese. Successivamente, in corso d’opera, mi sono reso conto che potevano esserci modi diversi di raccontare la stessa cosa. Il primo romanzo si apriva con l’assassinio dello zar. Da lì prese il via una serie di esodi verso gli Stati Uniti e Israele. E in Europa? Come vivevano allora gli ebrei in Italia, in Inghilterra, in Francia?”.

Vivevano attraversando il fuoco, possiamo rispondere noi. Il fuoco della Prima Guerra Mondiale, quello della Rivoluzione russa e il crollo dell’Impero Ottomano e la conquista da parte dell’Inghilterra della Palestina. E poi i tanti fuochi interiori che alimentano o divorano i vari personaggi, ognuno con un suo sogno da realizzare.

“Sto già lavorando al terzo libro per arrivare alla nascitra dello Stato di Israele. Lì si porrà il problema di come affrontare il tema della Shoah senza risultare ‘splatter’. Mi tremano le vene dei polsi a pensare a quando vi arriverò. Il rischio è di essere banale e trito è fortissimo, o scadere nella narrativa del dolore fine a se stessa”.

Cosa può insegnare questo pezzo di storia lungo 150 anni del popolo ebraico?

“Va molto di moda oggi la parola ‘resilienza’, vocabolo che personalmente detesto. Ma credo che gli ebrei ne siano la rappresentanza plastica. Voglio dimostrare che la storia di Israele non è un risarcimento tardivo per i mali del nazismo. Esisteva già quando Ben Gurion lo proclamò. C’erano già scuole, partiti politici, l’orchestra sinfonica. Tel Avviv esisteva dal 1911, sorta attorno al liceo dove si insegnava ebraico. A distanza di 78 anni da quel giorno lo Stato di Israele è lì ed è la dimostrazione plastica della resilienza del suo popolo. E questo non te lo dà una risoluzione dell’Onu. Servono radici che partano da molto lontano”.

Cosa ha spinto, e spingerà, a portare su carta quelle emozioni nate sui banchi di una terza media? “Non sono ipocrita. Non voglio dire come altri autori che si scrive per sé stessi. O che del giudizio del pubblico poco importa. A me importa. Molto. Il mio obiettivo primario è che uqesto libro piaccia alla gente e che lo diffonda. Seminando informazione e curiosità. La diffusione della conoscenza è la vittoria totale”.

Mentre risponde, sotto gli occhiali tondi, sotto la barbetta che incornicia il volto, lo sguardo di chi scrive cade sulla maglietta che Rubini indossa. C’è scritto “only the curious have something to find”. Solo i curiosi hanno qualcosa da trovare.

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