Copparo. Difficile capire come siano andate davvero le cose, se i comportamenti per i quali oggi l’educatrice è a processo fossero davvero tali da essere qualificati come un reato, oppure fossero solo dei leggeri eccessi, non da codice penale, per quanto evitabili. D’altronde, è questo che va stabilito.
Parliamo del secondo processo che vede coinvolta un’educatrice 56enne di una struttura comunale di Copparo (difesa dall’avvocato David Zanforlini), oggi spostata ad altra mansione, già assolta in primo grado dall’accusa di abuso di mezzi di correzione, poi rimandata davanti al tribunale con l’accusa, questa volta e per gli stessi fatti (risalenti ai mesi tra 2012 e 2013), di maltrattamenti nei confronti di alcuni bambini piccolissimi.
Difficile capire dove stia la verità anche perché la prima testimone sentita ieri nella prima udienza istruttoria sembra aver ridimensionato la gravità dei fatti. E proprio lei a vedere che in alcune occasioni mal sopportava i bambini che piangevano e li spostava – “li spingeva”, disse ai carabinieri, ma ha spiegato in udienza che intendeva il gesto, non con violenza – o li sollevava per le braccia, oppure dava dei pizzicotti che lasciavano dei segni. Su questi ultimi gesti, la stessa teste ha detto che, tranne un’occasione in cui la vide dare un pizzicotto a un bambino che piangeva e poi chiedergli “adesso piangi per qualcosa?”, era il suo modo di fare con i bimbi con le guanciotte più pronunciate, “come una vecchia zia”, anche se forse non dosava bene la forza, tanto che lasciava dei segni e in alcuni casi i piccoli piangevano.
Per la teste, i comportamenti infastiditi coincisero in realtà in con un periodo in cui l’imputata soffriva per via delle condizioni di salute del padre.
V’è da dire che la pm Barbara Cavallo e anche l’avvocato Stefano Scafidi (che assiste alcune famiglie, costituitesi parte civile), hanno più volte fatto notare come tra il racconto odierno e quello reso all’epoca dalla teste ci siano notevoli differenze. La teste ha spiegato che in caserma era in uno stato di agitazione e che le era parso che i militari che le facevano le domande volessero da lei la conferma di cose che già sapevano, affermano, come già fece nel primo processo, che in realtà non rilesse il verbale prima di firmarlo.
Di fatto, né lei né l’altra collega – anche lei sentita come testimone e anche lei tendente a rivedere quanto prima dichiarato ai carabinieri – denunciarono i comportamenti alle superiori o al Comune (qui in doppia veste di responsabile civile con l’avvocato Vittorio Zappaterra e parte civile con l’avvocato Gianni Ricciuti), ritenendoli evidentemente ancora all’interno di una soglia di tollerabilità.
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