Portomaggiore
16 Aprile 2022
L'organizzazione ‘in famiglia’ del sistema di caporalato sgominato da carabinieri e procura nel Portuense

Senza passare per il “capo” nessun pachistano poteva lavorare a Portomaggiore

di Daniele Oppo | 4 min

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Portomaggiore. Nessun pachistano arrivato a Portomaggiore poteva lavorare senza passare per le attenzioni di Ahmad Iftikhar, l’uomo che per la procura di Ferrara e i carabinieri aveva il controllo dei connazionali da destinare alle varie aziende agricole del territorio, specialmente tra Mesola e Comacchio.

Era lui, 51 anni, il capo di un’organizzazione di fatto familiare:  un gradino sotto c’era il fratello, il secondo capo, Rizwan Muhammad (38 anni) e poi il giovanissimo figlio (Zain Ul Abidin 21 anni) con funzioni di autista e un collaboratore di 34 anni (Waqar Ahmed), anche lui autista nonché prestanome per la società usata da Iftikhar come copertura per far sembrare le cose regolari.

Tutti e quattro sono indagati per intermediazione illecita di manodopera – il cosiddetto caporalato – per aver fatto da tramite con alcune aziende agricole e procurato loro decine e decine di braccianti, pagati meno di quanto spettava loro, senza alcuna tutela assicurativa e previdenziale (o comunque limitata al versamento di una parte dei contributi), sfruttando la loro condizione di bisogno economico.

Tutto messo nero su bianco nell’ordinanza con la quale il gip Vartan Giacomelli ha applicato le misure cautelari chieste dal sostituto procuratore Ciro Alberto Savino: i primi due sono stati condotti in carcere, gli altri due – visto anche il loro ruolo secondario – ai domiciliari (ma il secondo è irreperibile).

Da quanto emerge, sulla base delle testimonianze e dei riscontri acquisiti, senza passare per Iftikhar era impossibile lavorare per i pakistani residenti a Portomaggiore. Solo lui e il fratello Rizwan potevano mantenere i contatti con le aziende e gli imprenditori italiani. Il 51enne era centrale nella comunità, manteneva potere e importanza dando da lavorare ai migranti pakistani, anche senza documenti, imponendo le proprie regole, riassumibile in una sola regola: controllo totale.

E lui e la sua organizzazione erano molto temuti: la rissa dalla quale è partita tutta l’indagine era infatti un regolamento di conti con un lavoratore che voleva ribellarsi al sistema di sfruttamento e andare a lavorare altrove, dove gli garantivano paga piena; ma anche altri braccianti hanno riferito di percosse o di minacce di trattenere la paga in caso di problemi.

Da quanto emerso in sede d’indagine, a fronte di paghe orarie regolari di 9,90 euro – o in nero di circa 7 euro – Iftikhar teneva per sé e la propria organizzazione tutto ciò che eccedeva i 5 euro che prometteva ai braccianti. Questi, quando arrivavano i bonifici da parte delle aziende, dovevano prelevare in contanti la parte eccedente i 5 euro all’ora e consegnarli al 51enne, a titolo di contributo per il trasporto e per il suo interesse per farli lavorare. Anche l’eventuale trattamento di fine rapporto doveva essere consegnato al capo.

Il trasporto era gestito sempre dalla stessa organizzazione familiare tramite l’uso di vari mini-van e di un paio d’autisti che prelevavano i lavoratori presso le proprie abitazioni – alcuni hanno riferito di vivere in case insieme anche a 8 persone, a volte addirittura 15 – e poi li portavano nei campi. Qui era fatto loro divieto di avere qualsiasi rapporto con i datori di lavoro.

Ben cinque euro all’ora per lavorare 8 ore al giorno per 6 giorni a settimana; 9 ore in caso di necessità, soprattutto d’estate. Nell’ordinanza è riportato anche il caso di un bracciante infortunatosi dopo essere scivolato sul cassone di un camion: i colleghi chiamano Iftikhar ed è lui a trattare la questione, chiedendo di aspettare affinché passi il dolore. In un’altra occasione, di fatto, ordina di lavorare nel fango senza stivali e di dire all’imprenditore che non avrebbero avuto alcun problema a farlo, superando così le sue perplessità.

Il tutto gestito tramite un’azienda, denominata La Pianura Srl, che per gli inquirenti era intestata fittiziamente a uno degli indagati – l’irreperibile – Waqar Ahmed, in realtà uno degli autisti dell’organizzazione – ed era una “scatola vuota”, una “cartiera” usata per emettere buste paga nominative ogni mese utili per il rilascio del permesso di soggiorno agli operai reclutati.

I tre arrestati, specialmente i due vertici, interrogati lunedì scorso dal giudice, hanno cercato chi di ridimensionare le proprie responsabilità, chi di negare l’esistenza di un’organizzazione e dello sfruttamento dei lavoratori.

 

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