di Michele Govoni
Non è un caso che Johnna Adams sia stata definita come tra le più promettenti autrici di teatro negli Stati Uniti: la sua scrittura è incalzante, potentemente profonda, ricca di riferimenti ad un quotidiano che, affidato alla sua penna, si fa tagliente come rasoio.
Non è nemmeno un caso se, per la versione italiana del suo testo più famoso, “Il nodo” (con la traduzione di Vincenzo Manna e Edward Fortes), la regista Serena Sinigaglia abbia scelto due straordinarie attrici: Ambra Angiolini e Arianna Scommegna che sono in scena sul palco del Teatro Comunale Abbado da venerdì 11 a domenica 13 marzo.
Decido di affidarmi a questo termine, “caso” appunto, per arrivare a negarlo, ma anche per arrivare a cercare di comprendere come nulla, in arte (e il teatro cos’è, se non arte?), sia mai lasciato al caso.
Si parla di bullismo ne “Il nodo”. La situazione narrativa, almeno da principio, è “semplice” e purtroppo ordinaria. Un’insegnante di quinta elementare (Heather Clark interpretata da Arianna Scommegna) e la madre di un ragazzo (Corryn Fell interpretata da Ambra Angiolini) si incontrano in classe durante un’ora di ricevimento. Situazione normale, almeno in apparenza.
Ciò che, invece, emerge è un sentimento che va crescendo attimo dopo attimo. Uno spaesamento mascherato dal non detto, uno sconvolgimento che fa strada ad un riso scomposto e alle lacrime. Gidion, il figlio di Corryn, è rientrato a casa con lividi e il naso sanguinante. E’ la vittima di un atto di bullismo o il bullo è lui stesso? Ma Gidion ha fatto un passo di più: estremo ed incredibile per un ragazzino di poco più di dieci anni. Il testo lo accenna, narrandone dapprima i contorni ed entrando nei dettagli solo ad uno stadio avanzato.
Nel dialogo tra le due protagoniste, in questo muro contro muro che piano piano diventa una sorta di scavo archeologico non solo in ciò che poteva essere e non è stato fatto per aiutare Gidion, ma anche nella vita e negli strati interiori che essa ha accumulato in noi, “Il nodo” (che altro non è che un indissolubile nodo gordiano) tenta di tagliare il groviglio di (ri)sentimenti che animano Corryn ed Heather ponendo l’accento sul tema del bullismo e del cyberbullismo, ponendoci di fronte a più di un interrogativo.
L’insegnante, apparentemente radicata in una cultura stantia e puritana, fa l’errore di non ascoltare la voce di Gidion, semplicemente respingendone un racconto che non è solo espressione della sua più libera fantasia, ma è anche grido di aiuto e di dolore. Corryn, docente universitaria di poesia medievale, tenta di aprire gli occhi (i suoi e quelli di Heather) di fronte ad una realtà che è l’espressione massima del dolore e spiegando, passo dopo passo, quello stesso racconto a causa del quale Gidion ha dovuto subire l’onta di una sospensione da scuola.
Ambra Angiolini è straordinariamente vera, autentica nel suo esprimere il sentimento e la disperazione di una madre che ha perso ogni speranza se non quella di avere delle risposte. Arianna Scommegna si trasforma, dando risalto ai tratti che contraddistinguono un personaggio scomodo anche se profondamente fragile e umano.
Tutto funziona perfettamente in questa messa in scena ben guidata e condotta da Serena Sinigaglia con l’aiuto di Gabriele Scotti: dai costumi di Maria Carretta alle luci di Roberta Faiolo, fino alle musiche di Mauro Di Maggio e Federica Luna Vincenti.
Ne esce uno spettacolo toccante, potentemente commovente che urta gli animi ma che può fungere da guida per chi sia a contatto, ogni giorno, con il mondo dei ragazzi (come insegnanti o come genitori). La forma del dialogo e il climax crescente che ne consegue sono gli elementi con cui cerca di fornire le ragioni e le soluzioni a ciò che una ragione o una soluzione può avere solo se si è saputa ascoltarne la voce.
L’assenza di Gidion che, in un certo senso, è il vero protagonista della vicenda, si fa presenza, grazie alle sue parole, agli oggetti contenuti nel suo banco, ai biglietti che si scambiava con una compagna. Presenza per oggetti e, azzarderei, presenza per luogo. Già, perché un’aula scolastica non è mai priva di vita, anche se vuota. Essa “respira” delle voci dei ragazzi, dei loro banchi e degli oggetti dimenticati, dello scalpiccio dei loro passi all’uscita e delle voci tremanti durante le interrogazioni.
Un’aula scolastica non è mai solo una “scatola da riempire” come uno studente non è mai solo una “scatola da riempire”, per citare, parafrasando, il testo di Johnna Adams. L’aula è specchio, terreno di confronto, luogo di scambio. Le scene di Maria Spazzi ne colgono i riferimenti regalandoci sul palcoscenico un’aula che in apparenza sembra vista attraverso lo specchio deformante della mente e dei sentimenti, ma che, nel corso dello spettacolo si trasforma in luogo di battaglia (anche fisica) e, da ultimo, in collina dal quale guardare poeticamente lontano ad un futuro, si spera, più promettente.
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