Politica
12 Gennaio 2022
Intervista a Luigi Marattin. Dalle categorie di destra e sinistra alle prospettive di Ferrara nel 2024

“Per battere il populismo di Fabbri e Naomo non serve tornare indietro”

di Marco Zavagli | 10 min

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“Ma cos’è la destra, cos’è la sinistra?” cantava Giorgio Gaber. Che differenze ci sono oggi tra sinistra e destra? Lo chiedo perché in una recente intervista ha parlato di Italia Viva come alternativa al populismo di Salvini e Meloni da una parte e quello di Landini dall’altra.

Esisteranno sempre linee di demarcazione, anche profonde, tra orientamenti, approcci e culture politiche; altrimenti saremmo tutti immersi in una unica melassa, differenziandoci solo per interessi personali. Ma non sono così convinto che tali linee di demarcazione rimangano immutabili a fronte dei cambiamenti che avvengono nel corso del tempo. Qualche anno fa sul Foglio provai ad articolare una riflessione in merito. In sintesi, così come la Rivoluzione industriale nel XVIII secolo fece nascere le categorie politiche di “destra” e “sinistra”, credo che il successivo cambiamento strutturale che il mondo ha vissuto (la Globalizzazione, dal 1989 in poi) abbia mutato profondamente le tradizionali categorie politiche, in tutto il mondo.
Forse è ancora presto per identificarle con assoluta certezza, ma sono convinto che non siano più quelle del passato. In Italia questo ragionamento ha una valenza ancora maggiore, visto che le peculiarità storiche del nostro XX secolo – la dittatura fascista, e poi, il più grande partito comunista del mondo occidentale – ci hanno impedito di conoscere sia un normale partito di destra che un grande partito socialista. Al momento le offerte politiche italiane più cristallizzate sembrano essere due: quella sovranista/populista di Salvini e Meloni (che rifiutano la globalizzazione e propugnano il ritorno alla dimensione esclusivamente nazionale) e quella social-movimentista di Conte-Bettini-Landini, che tendono a difendere il cittadino dalla globalizzazione. Sono entrambe offerte politiche legittime, ampiamente presenti nella società italiana, ed entrambe con solidi riferimenti internazionali: Trump, Farage, Bolsonaro, Orban in un caso, Ocasio-Cortez, Corbyn, Sanders e Melanchon dall’altra.
Italia Viva nasce per costruire una terza offerta politica: quella di chi la globalizzazione, questo enorme cambiamento strutturale che ha cambiato ogni dimensione della vita pubblica, la vuole sfruttare, governandola, per allargare le opportunità per tutti. Chi vuole redistribuire soprattutto opportunità, non solo reddito; chi vuole usare il sistema fiscale come strumento di crescita, non di mera redistribuzione; chi non ha paura di dire che nella scuola bisogna pagare di più gli insegnanti migliori, e non appiattire tutti sullo stesso livello; chi è convinto che per combattere le delocalizzazioni e i licenziamenti non occorra vietarli per legge, ma migliorare le condizioni di competitività del territori, far costare meno il lavoro e migliorare il sistema formativo.

Un “avanti al centro contro gli opposti estremismi” direbbe sempre Gaber… Ma, rimanendo nel teatro canzone della politica, non si rischia la “dittatura di centro che va benissimo a tutti”?.

Sarebbe così se si ragionasse nel modo classico: una destra, una sinistra e un centro che sta in mezzo tra le due. Ma lo schema di cui parlavo è un’altra cosa: l’offerta politica riformista-liberale non è una “mediazione” tra le altre due (come il “centro” lo era nei confronti di “destra” e “sinistra”), ma un’offerta politica differente. Così come dobbiamo liberarci da un altro retaggio del vecchio schema, quello in cui il “centro” era moderato. L’offerta politica riformista-liberale potrà anche essere moderata nei toni (alla fine, sebbene con qualche fatica, lo sono diventato persino io…), ma è ben conscia che l’Italia di oggi necessiti di riforme radicali per entrare da protagonista nel XXI secolo.

Per governare però bisogna, auspicio collettivo, essere eletti. Per essere eletti serve prendere voti. Per prendere voti servono sicuramente proposte e linguaggi adatti a farle comprendere. Ma forse serve anche quella capacità di trasporto, quel sentimento che nelle parole e nelle azioni riesce a coinvolgere oceani di persone. Ci riuscì Berlinguer. In epoca più recente ci riuscì Cofferati. Ci riuscì, complice a mio modo di vedere una strategia comunicativa molto simile al marketing politico, Renzi. Ma oggi Renzi non è lontano da quel 2014?

Una delle conseguenze della crisi dei partiti e della politica dopo il 1989 (che, sono sempre stato convinto, è stata soprattutto crisi di formazione e selezione di classe dirigente) è che da un certo punto in poi l’elettorato ha iniziato a produrre cicli di consenso politico molto intensi ma anche molto brevi. Sia Renzi, che Salvini che Grillo – e ora, sebbene in misura minore, la Meloni – hanno vissuto picchi altissimi di consenso politico e personale che tuttavia è evaporato in maniera piuttosto rapida. L’Italia, che nella Prima Repubblica era abituata a variazioni dello “zero virgola” nel consenso ai partiti lungo lo stesso decennio o oltre, si è trovata a sperimentare milioni e milioni di voti che si spostano a volte nel giro di pochi mesi. Uno dei motivi per cui questo accade l’ho già espresso: la fine delle culture politiche, che nella cosiddetta Seconda Repubblica (in cui ci si è semplicemente divisi tra berlusconiani e anti-berlusconiani) sono sparite. Ma l’altro motivo è la crisi del rapporto tra ricerca/ottenimento del consenso e utilizzo del consenso. Il sistema politico-istituzionale è talmente arrugginito e paralizzato, che chiunque arrivi al governo non riesce a governare davvero, e allora la politica sembra essersi ridotta a essere soltanto la gara a chi la spara più grossa in campagna elettorale o sui social. Solo che i cittadini, vedendo che dopo aver ottenuto il consenso non riesci a produrre quel cambiamento su cui avevi ottenuto la delega, rapidamente passano a premiare il prossimo in fila. Il Renzi del 2014 aveva capito due cose che gli altri non volevano comprendere: che il sistema politico-elettorale aveva bisogno di riforme profonde per non cedere alla minaccia populista, e che i partiti dovevano essere realmente contendibili affinché la nostra democrazia potesse essere davvero florida e funzionante. Sono convinto che siano due temi ancora cruciali, anche perché entrambi purtroppo ancora irrisolti.

Non voglio cadere nello schematismo e magari neanche essere manicheo. Ma non credo di allontanarmi troppo dalla verità se dico che Renzi è molto amato dalla destra e molto criticato dalla sinistra. Una caratteristica che, senza malizia da parte mia, vi accomuna.

Una certa parte della sinistra ha sempre criticato Renzi (arrivando credo anche a sfiorare forme di odio) semplicemente perché egli ne ha messo a nudo – con una certa brutalità, che però forse era necessaria – difetti e anacronismi. Ha rotto tabù storici, come quello secondo cui sindacati e magistrati avevano sempre e comunque ragione. O quello secondo cui riduzione delle tasse, l’attenzione al mondo produttivo e la promozione della concorrenza fossero temi “di destra”.
Non voglio assolutamente fare paragoni, ma seguo la sua provocazione: nel mio piccolo, mi è capitata un po’ la stessa cosa, e fin dalle manifestazioni studentesche di metà Anni Novanta, dove mi chiedevo e chiedevo ad alta voce cosa diavolo c’entrassero le camionette con la scritta CCCP (la scritta dell’Unione Sovietica, specifichiamolo per i più giovani…) con le manifestazioni che organizzavamo per chiedere l’aggiornamento dei programmi scolastici, maggiori collegamenti con il mondo del lavoro e l’apertura delle scuole al pomeriggio. Ed è stato così sempre, fino a quando da assessore mi dicevano che la mia ossessione di voler ridurre il debito pubblico era una cosa di destra, anche se io gli spiegavo che solo così avremmo liberato le risorse per aprire asili nido e ridurre un po’ le tasse ai più deboli (cose che infatti facemmo).
Certa sinistra poi ha una marcata componente di settarismo. Mi hanno segnalato che qualche giorno fa, dopo una mia intervista ad un quotidiano locale ferrarese, che un vecchio esponente del Pci ferrarese ha dileggiato sia il mio ruolo istituzionale che professionale semplicemente perché avevo espresso una mia opinione, e cioè che pensavo che le posizioni di Landini fossero populiste. Un’opinione che sicuramente egli non condivideva, ma che non penso gli desse il diritto di additarmi come una sorta di reietto della società: avrebbe semplicemente, se ne avesse avuto le capacità, contrastare la mia opinione con una sua alternativa e argomentata.
È stato poi divertente leggere i commenti sotto a quel post: tutti protagonisti storici della sinistra sindacale ferrarese, che facevano a gara a chi mi insultava di più. Alcuni erano anche persone con cui ho trascorsi bellissimi momenti nei miei anni a Ferrara, e che allora non mi facevano mai mancare la loro stima e il loro affetto. Ecco, quello mi ha dato qualche istante di tristezza, ma sono rapidamente passato ad altro, convincendomi ancor di più che è stato ed è questo atteggiamento snobista e elitario a spingere tanti a votare a destra, a Ferrara e non solo.

Renzi e Marattin (foto Alessandro Castaldi)

Renzi e Marattin a Ferrara (foto di Alessandro Castaldi)

Nemmeno con il bipolarismo che pure il giovane Marattin portava avanti anni fa si è riusciti a governare l’Italia. Renzi allora puntava il dito contro i partitini del 2 o 3 percento che ricattano un’intera maggioranza. Ma oggi Italia Viva non è finita in quella schiera come per una spietata legge del contrappasso?

Gli strali di Renzi contro i partitini facevano riferimento a quella lunga – e che ora io riconosco essere fallimentare – stagione in cui pensavamo che il nostro sistema politico dovesse volgere verso un assetto maggioritario (a turno unico) e bipolare. Lungo tutta quella stagione non abbiamo mai avuto il coraggio di andare fino in fondo lungo quella strada, e ci siamo trascinati dietro rimasugli di assetto proporzionalistico che producevano la situazione che lei ricordava. E penso ancora che fosse giusto, sempre rimanendo in quell’ottica, andare fino in fondo e eliminare quei poteri di veto.
Il punto è che da allora, complice la comparsa di offerte politiche populiste in Italia e nel mondo, per quanto mi riguarda il modello bipolare non esiste più. E con esso il maggioritario a turno unico, che pur ancora condiziona in parte le nostre regole elettorali. Le offerte politiche, come dicevo prima, non sono più solo due (ammesso che lo siano mai state, e ho seri dubbi: semplicemente, si cercava forzatamente di tenere insieme dentro ciascuno dei due poli cose estremamente diverse tra loro), ma almeno tre, e con differenze nettissime. A questo punto quindi si abbia il coraggio di scegliere: o un maggioritario ma a doppio turno, in cui siano gli elettori a scegliere le due offerte politiche da mandare al ballottaggio. Oppure un proporzionale con sbarramento. In altre parole, o il modello francese o quello tedesco-austriaco-olandese. Per troppo tempo, nelle regole elettorali, abbiamo voluto inventare la ruota o fare fantasiosi ibridi, quando bastava scegliere tra i sistemi che all’estero maggiormente funzionano.
Non sfuggo però a questa nuova, e sempre bonaria e intelligente, provocazione. Se lei giudica il “ricatto di un piccolo partitino” aver mandato a casa Conte, Bonafede e Arcuri per avere Draghi, la Cartabia e Figliuolo, mi chiami pure “ricattatore” tutta la vita…

In più occasioni ha lanciato l’allarme sul rischio di non intercettare i fondi del Pnrr. Avvertimenti rivolti agli amministratori a tutti i livelli tesi a puntare sulla progettualità. Abbiamo visto a Ferrara un’amministrazione comunale capace di lasciarsi scivolare via 20 milioni di euro a causa di “assenza di idee”, per citare un’esponente dell’opposizione.

Al di là dell’episodio specifico, che spero sia recuperato dalla promessa integrazione del finanziamento nazionale, ma il punto è capire che questa partita del Pnrr è una partita competitiva: bisogna presentare progetti di assoluta qualità, migliori di quelli degli altri; vale soprattutto per le tipologie di bandi che hanno vincoli di destinazione territoriale, perché la partita è ancora più competitiva. Serve visione del futuro e capacità tecnica di tradurla in progetti di qualità e in tempi rapidissimi. Due caratteristiche che non mi pare proprio siano patrimonio dell’attuale amministrazione.

Eppure credo che anche se perdessero 20 milioni l’anno Alan Fabbri e la destra continuerebbero a vincere le elezioni in questa città.

Al momento credo anch’io. A Ferrara l’attuale opposizione sembra ancora convinta che per battere il populismo di Fabbri e Naomo serva tornare indietro (a volte persino molto indietro), invece che andare avanti. Per fare in modo che questa sia stata una parentesi, un incidente di percorso, per riprendere poi comodamente da dove si era stati inopinatamente interrotti. Io, da persona che ormai segue da lontano le vicende della città, penso invece che ci siano tutte le condizioni per costruire una candidatura nel 2024 totalmente nuova e di spessore, che coaguli intorno a sé il meglio delle energie ferraresi e che si incarichi di portare la città nel futuro. Ferrara se lo merita, dopo tutto.

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