Internazionale: immaginare qualcosa che non c’è per superare razzismo e diseguaglianze
Il festival del giornalismo si è interrogato sul problema a "Guerre dell'immaginario" con la sociologa Francesca Coin, a scrittrice Nadeesha Uyangoda e la specialista in studi afroamericani Maboula Soumahoro
di Pietro Perelli
Intersezionalità. Durante questa edizione del festival abbiamo già sentito riecheggiare questa parola proposta nel 1989 dall’attivista e giurista statunitense Kimberlé Crenshaw. In uno degli ultimi incontri, con un panel tutto al femminile, si è però cercato di andare un po’ più a fondo insieme alla sociologa Francesca Coin, alla scrittrice Nadeesha Uyangoda e alla specialista in studi afroamericani Maboula Soumahoro, moderate dalla traduttrice e scrittrice Claudia Durasanti.
Il titolo dell’incontro, “Guerre dell’immaginario”, evoca gli scenari di lotta dai quali è forse il momento di prendere spunto. “Serve una battaglia globale omnicomprensiva – dice Soumahoro –, una rivolta radicale e totale, senza mai dimenticare ciò che ha permesso di arrivare fin qui”. Nella descrizione del titolo viene però scritto: “Intersezionalità, privilegio e razzismo sistemico: sono le parole che riempiono l’attuale dibattito culturale. Una moda d’importazione o un’apertura a nuovi punti di vista sul mondo?”
Ecco, si dovrebbe partire proprio da queste domande arrivando a una riflessione critica sulla cultura occidentale imperniata, anche inconsapevolmente, di razzismo e diseguaglianza. Basti pensare che, dice Uyangoda, “in Italia c’è la diffusa opinione che non ci sia razzismo” ma c’è anche, per fare un altro esempio, “l’idea che il nostro sia stato un colonialismo bonario”. C’è quindi la necessità di un autoriflessione critica che non svii l’attenzione incolpando gli Stati Uniti. In Europa infatti, spiega Soumahoro, “usiamo regolarmente una serie di termini che diciamo venire dagli Stati Uniti”, in realtà “l’Europa ha imparato a nasconderli perché sono termini che fanno parte di essa”. C’è quindi questa tendenza a dimenticare il proprio passato coloniale e la profonda connessione con gli Usa.
“C’è – aggiunge Coin – un retrogusto suprematista strutturale nella cultura italiana” e su questo sarebbe il caso di fare una profonda autocritica, non tanto e non solo su macro situazioni ma sulle piccole cose di ogni giorno. Un’autocritica che non si deve limitare alla razza ma anche al privilegio, al potere e alla classe; tematiche interconnesse tra loro e non monoliti a sé stanti. “La nostra – dice sempre Francesca Coin – è una società strutturata in modo diseguale” e grazie a questa strutturalità “la diseguaglianza si nasconde”.
Ma come portare a galla tutte queste diseguaglianze di genere, di classe, razziali? “Bisogna osare – dice Maboula Soumahoro – e immaginare qualcosa che ancora non c’è”. Non si tratta però di una partenza da zero perché, spiega Coin, “sarebbe ora di prendere a esempio esperienze del passato”, non tanto come modello ma come input a una riflessione. Fondamentale però pare la necessità di cambiare il paradigma perché non avrebbe senso, spiega Nadeesha Uyangoda, “tentare di replicare al femminile le strutture economiche patriarcali in cui viviamo”.