Attualità
16 Novembre 2020
Il regista della “Lunga notte”, allora 17enne, rimase segnato dalla visione del massacro e decise che avrebbe lottato tutta la vita contro le ingiustizie

Eccidio del Castello, quella mattina che cambiò la vita di Florestano Vancini

di Marco Zavagli | 4 min

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Aveva 17 quando vide quella scena che gli cambiò e condizionò l’intera sua vita. Stava andando al liceo scientifico, come tutte le mattine con la sua bicicletta.

Ma quando si avvicinò al Castello estense sentì quelle urla strazianti che provenivano da corso Roma, così deviò il percorso per andare a vedere cosa fosse successo.

Di metro in metro notava tra le persone che incrociava un’agitazione e una disperazione fuori dal comune. E così il cuore, che di fiato in fiato andava restringendosi, scoppiò all’improvviso: arrivato davanti al muretto “vide una scena che non dimenticò mai più e che lo segnò per tutta la vita. Quella scena che anni dopo ha condiviso con tutti noi attraverso il suo modo di fare cinema così personale e realistico”.

Quel 17enne, che aveva festeggiato il compleanno il 24 agosto, era Florestano Vancini. A raccontare come la sua vita cambiò è la nipote Ilaria, che ogni 15 novembre le sembra di rivivere la visione di quei corpi, “i corpi degli innocenti, padri, fratelli, figli, amici, zii, prelevati dalle loro case durante la notte, strappati alle calde braccia delle loro famiglie e trucidati, senza pietà, dai fascisti”.

“I cadaveri erano lasciati in bella mostra – racconta Ilaria a Estense.com -, come monito, ed i fascisti non lasciavano avvicinare i familiari in lacrime, affranti dal dolore. Italiani che avevano ucciso Italiani”.

E la voce di Vancini sembra rivivere fuori della pellicola nella voce della nipote: “I fascisti avevano un un atteggiamento fiero ed orgoglioso, erano ben dritti in piedi, con i fucili spianati a far da recinto ai cadaveri, allontanando in malo modo, con spinte e calci, i familiari che volevano abbracciare i corpi dei loro cari. Non provavano un minimo di rimorso o di pietà per quella disperazione e sofferenza così atroce. Mio nonno mi diceva sempre che purtroppo nella realtà, la scena fu molto più violenta e brutale di come la rappresentò nel film. I fascisti entrarono nella scuole e nelle classi cacciando gli studenti fuori, perché erano contro la cultura, li invitavano ad arruolarsi e ad andare i piazza a vedere cosa succede a chi è antifascista. Quei corpi vennero lasciati per strada, proprio come esempio e monito. «Come a dire questa è la fine che fate se siete antifascisti». Le persone uccise erano innocenti, la loro unica ‘colpa’ era quella di essere antifascisti o ebrei e questo lo sapevano tutti, essendo Ferrara una città piccola”.

E quei “poveri stracci”, come li descriveva Giorgio Bassani, ripresero vita in celluloide. “Mio nonno rimase talmente sconvolto e traumatizzato da quel giorno, da quelle immagini che non le dimenticò mai, le ricordò per tutta la vita in modo perfettamente lucido, dedicando il suo primo film proprio a quell’episodio e grazie a lui quei fatti potranno essere vissuti e ricordati da tutti”.

‘La lunga notte del ’43’ è il suo primo film, ne curò sceneggiatura e regia. Vinse al Festival di Venezia il premio come migliore opera prima. Il film – come noto- è ispirato al racconto di Giorgio Bassani ‘Una notte del’ 43′, “ma mio nonno volle cambiare il titolo. Invece di ‘Una notte’ lui scelse ‘La lunga notte’ proprio per rimarcare il fatto che quella non fu una notte qualsiasi, ma fu la notte in cui tutto cambiò, per Ferrara e soprattutto per lui. Aggiunse l’aggettivo “lunga” perché accaddero talmente tante cose orribili che quella notte sembrava non finire mai”.

E quella mattina di quella lunga notte Florestano Vancini, a 17 anni, “realizzò che non avrebbe mai, in tutta la sua vita, abbassato la testa e che avrebbe lottato contro le ingiustizie ed i soprusi dei più forti sui più deboli. Decise che avrebbe agito sempre per difendere e dare voce agli innocenti. E così fece fino all’ultimo giorno della sua vita”.

Una foto di Florestano Vancini nell’inverno del ’44, qualche mese dopo l’eccidio del Castello

E poco prima di spegnersi, nel settembre 2008, parlava ancora con i nipoti di quel 15 novembre. “La sofferenza in lui era ancora forte e viva. Non dimenticherò mai quella sera d’estate, in terrazzo, noi tre da soli – io lui e Ferruccio – a chiacchierare. Lui non amava parlare del periodo della guerra, gli causava tanto dolore, ma quella sera, forse consapevole che non gli rimaneva molto da vivere, rispose a tante delle nostre domande”

E il regista rivelò a quelle menti curiose che “il giovane Gilberto che compare nel film, verso la fine, quando Franco organizza la sua fuga in Svizzera, incarna gli ideali di mio nonno e della resistenza. Credo proprio che quel ragazzo sia mio nonno da giovane, quando realizzò che non sarebbe più rimasto inerme davanti ad un tale atto di sopruso e di violenza”.

Queste le parole di Gilberto-Florestano: «..La Svizzera? Perché non c è proprio altra soluzione? …Come cosa? Non siamo uomini anche noi? Non abbiamo le mani anche noi? …Voglio dire che non si può più continuare a subire come avete subito voi antifascisti in questi 20anni, che vi siete fatti picchiare, mettere in galera e ammazzare così passivamente, è ora di reagire papà… tu sei padrone di fare come vuoi, ho parlato più per me che per te”».

“Credo che queste parole esprimano forza – afferma Simona -, determinazione e coraggio, parole che mio nonno mise in pratica fino all’ultimo dei suoi giorni”.

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