Esco di casa.
C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico.
Oggi infatti non correrò con Luca, e quindi non mi produrrò nel rituale abbraccio senza smettere di correre (un’arte che si mette a punto solo dopo anni di esperienza), ma con Max, come non mi accadeva da tantissimi anni.
Non che ci siamo persi di vista: ma lui ha spostato il suo baricentro sportivo verso altre discipline e solo ieri, a sorpresa, mi ha chiesto di allenarci assieme.
Ci incontriamo come ai vecchi tempi all’alberone e lo sguardo che ci scambiamo è la più autentica attestazione di quanto siamo felici di vederci.
Ci avviamo, già sbuffando per il caldo, e subito dopo i primi convenevoli lui mi chiede:
“Ma lo sai che giorno è oggi?”
Sono rientrato ieri dalle ferie, e come spesso accade devo fare il conto dei giorni per riorientarmi:
“Cos’è… l’uno, no il due”.
“Sì, il 2 agosto”, mi fa lui guardandomi significativamente.
“Il 2 agosto… la bomba alla stazione di Bologna!”
“La bomba alla stazione di Bologna” ripete lui, scandendo con la sua voce pacata le parole.
Questo non può essere un giorno qualunque per nessuno; ma so che non lo è in particolare per Max.
Una sola volta, molto tempo fa, mi ha accennato al fatto che lui era lì, quel giorno, quella mattina, alle 10.25. Ho sempre avuto la sensazione che non sia un ricordo che vuole condividere, e ho sempre rispettato questo suo implicito desiderio di riservatezza.
Ma oggi, sarà che non corriamo assieme da tanto tempo, sarà che correndo fianco a fianco non ci si guarda negli occhi, sarà che oggi è proprio oggi, glielo chiedo:
“Eri lì quel giorno, vero?”
Max stavolta sente il bisogno, o il dovere, di raccontare: e così, esattamente quarant’anni dopo, interrompendosi di tanto in tanto per riprendere fiato durante la corsa, o per ricacciare indietro l’emozione, rivive con me quei momenti.
“Quel giorno dovevo rientrare dopo una licenza. Avevo 20 anni ed ero nei militari, facevo l’aviere all’aeroporto di Bologna.
Ero arrivato in treno da Ferrara e stavo aspettando l’autobus per la caserma. Aspettavo sul piazzale della stazione, tranquillamente appoggiato di schiena all’ultima colonna di sinistra del colonnato, quella vicina alla sala d’attesa, con il borsone militare ai miei piedi.
Era una bella giornata, la stazione era piena di gente, di confusione.
Quello che ricordo è lo spostamento d’aria: un boato mostruoso, l’aria che viaggia a mille all’ora attorno a me, a destra e a sinistra sfiorandomi i fianchi e la colonna che mi scherma perfettamente dall’onda d’urto.
Caos, polvere, tutti che scappano, tutti che corrono e vanno verso il centro della piazza.
Ma anche lì non si è al sicuro, dopo qualche secondo cominciano a piovere calcinacci.
Finita la pioggia di materiale torno in fretta alla colonna: penso al mio portafoglio, alla mia borsa, mica posso lasciarli lì.
Mentre mi avvicino al colonnato mi colpisce il silenzio. La confusione di prima è improvvisamente azzerata, non si sente più nulla.
Ma non è vero che non si sente più nulla: dopo poco, mano a mano che la polvere si deposita, salgono i lamenti, deboli, sommessi. Salgono da quel mucchio enorme di macerie che c’è adesso dove fino a pochi secondi fa c’era la sala d’aspetto della stazione.
La prima cosa che riesco a distinguere è una specie di fantasma, un uomo sopra le macerie che urla qualcosa in una lingua che non capisco, forse è tedesco, fa dei gesti, vuole che vada lì.
Non so cosa fare, ma lo faccio: mi avvicino, vado a vedere.
Salgo piano sul mucchio di rovine, l’uomo mi indica qualcosa che sbuca in un punto: è una cosa piccola, grigia, inanimata. E’ la mano di un bambino. Scavo a mani nude, sposto con cautela le pietre, lo libero, la libero, è una bambina.
Ma il suo viso è devastato, non respira più.
Mi guardo intorno, qualcuno mi grida di correre da un’altra parte, c’è un’altra persona là sotto.
Scaviamo, aiutiamo una donna ad uscire: è totalmente grigia, come la mano della bambina, ma è viva, il suo viso è sporco di sangue e di polvere impastata al sangue.
Si lamenta, devo pulirla, liberarle la bocca e gli occhi, non so come fare.
Mi viene in mente il mio borsone, corro a prenderlo, ci butto dentro la mano, cerco la cosa più morbida che ci sia: la mano mi casca sui miei calzini d’ordinanza, puliti e profumati, lavati da mia mamma ieri.
Torno indietro e con i calzini pulisco il viso della donna; ma non so da che parte voltarmi, da che parte andare per fare qualcosa, chi posso provare ad aiutare e chi ormai non provare ad aiutare più, perché è già morto, e sarebbe solo una perdita di tempo. Vago sopra le macerie con i calzini in mano, imbrattati di polvere e di sangue, e ovunque si sentono i lamenti salire dalle macerie; ovunque ti muovi per aiutare qualcuno cammini sulle voci di qualcun’altro che sta sotto.
Arrivano altre persone, insieme spostiamo i detriti, tiriamo fuori altri feriti.
Mi accorgo che in un punto c’è una specie di buco, di apertura tra le macerie; mi affaccio e vedo, poco sotto, due persone ancora sedute sulle poltroncine di plastica della sala d’attesa, ancora vive, bloccate all’altezza delle gambe da una trave di cemento che gli impedisce di muoversi. Cerco di dirgli qualcosa, di tranquillizzarli, che presto verranno i pompieri a liberarli, ma non riescono nemmeno a rispondermi, non sembrano sofferenti, piuttosto sono terrorizzati, hanno gli occhi spalancati.
Non so per quanto tempo mi aggiro lì sopra, a scavare con le mani e a pulire la faccia delle persone con quei calzini.
Comunque dopo non molto arrivano i soccorsi; i vigili del fuoco ci dicono di andare via, sanno loro cosa fare.
Così in qualche modo rientro in caserma, mi ripulisco e mi sistemo un po’.
Tutti parlano dell’accaduto, alcuni dicono che è scoppiata una caldaia, altri parlano di una bomba; comunque sia ci sono un sacco di morti, è un disastro.
Un tale disastro che il presidente della Repubblica, Pertini, decide di muoversi subito da Roma e con un aereo venire a Bologna.
Arriva nel pomeriggio all’aeroporto militare, bisogna fare un picchetto per quando scenderà dall’aereo.
Per fare il picchetto il mio comandante sceglie me e un mio compagno, così mi metto in fretta e furia l’uniforme e mi trovo sull’attenti, ai piedi della scaletta ad accogliere Pertini.
E sai a cosa penso tutto il tempo?”
Si volta verso di me e mi guarda negli occhi.
“No, non lo so” rispondo.
“Ai miei calzini; alla fine li ho persi e ho dovuto mettermi le scarpe senza; e se mi beccano con la divisa in disordine?”.
Non mi viene da dire niente; continuiamo a correre, sentiamo solo il nostro respiro affannato.
Vorrei ringraziare Max, per quello che ha fatto allora e per essere riuscito a raccontarmelo oggi.
Ma ho in mente l’immagine di quella bambina, quel tentativo di salvarla spostando le pietre sopra di lei.
Adagio, per non farle male.
La paternità e il resoconto dei fatti riportati, la cui sostanza e valore è tanto superiore alla mia timida trasposizione narrativa, sono interamente dovuti al carissimo amico citato nel testo.