Pensieri stringati
27 Novembre 2023

Numero 34

di Redazione | 4 min

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Esco di casa.

Fuori mi accoglie una giornata perfettamente autunnale: il cielo è terso, l’aria è pungente. Una giornata ideale per correre.

Mentre mi avvio verso l’alberone (dove non vedrò Luca, anche oggi impegnato altrove, e non ci potremo quindi produrre nel rituale abbraccio senza smettere di correre, un’arte che si mette a punto solo dopo anni di esperienza) la mia testa è ancora occupata dalle immagini che ho appena finito di vedere al telegiornale.

Le notizie a cui viene dato maggiore risalto sono due, di tenore totalmente diverso: l’ennesimo femminicidio di una ragazza da parte del suo ex compagno e la formidabile vittoria di Jannik Sinner contro Novak Djokovic, che consente alla nazionale italiana di tennis di qualificarsi alla finale di coppa Davis.

Mentre mi porto sullo stretto sentiero sopraelevato in direzione di corso Porta Mare rifletto su quanto mi ha spiegato mia sorella Chiara: il termine “femminicidio”, in effetti, che ha pure il merito di avere dato un nome preciso a un tipo di reato e di averne quindi portato alla luce la frequenza, presenta l’insidia di porre l’accento sulla vittima e non sull’autore del reato stesso. Autore che è quasi sempre il marito, il compagno o l’ex marito o l’ex compagno della vittima, che spesso non ne tollera la crescente autonomia o il desiderio di separarsi.

Il problema però è chi compie il reato e non certo la vittima, se non si vuole scadere nella sua paradossale colpevolizzazione.

Il concetto mi si chiarisce mentre procedo nella corsa, come se l’aria fresca mi aiutasse a fare chiarezza nei miei pensieri. La relazione tra uomini e donne è cambiata perché nell’arco del tempo sono cambiate le donne, la loro consapevolezza, la loro forza e il loro ruolo nella società. E il cambiamento di una delle due parti di una relazione mette inevitabilmente in crisi l’altra. In certi casi la risposta a questa crisi è la violenza.

Per quanto possa apparire controintuitivo è l’uomo ad essere fragile, ad essere in crisi, a doversi ripensare, a dovere mettere a punto nuovi modelli di mascolinità, di virilità che non sia tossica.

Attraversato Porta Mare la mura mi si presenta splendida, ricca dei colori di novembre, con un morbido tappeto di foglie che accoglie le mie falcate.

Continuo a pensare a questa faccenda dei modelli; e mi si affaccia alla mente una associazione bizzarra, che però, mentre continuo a correre e mano a mano che la esamino più dettagliatamente, mi sembra avere senso.

Penso appunto alla sfida sportiva tra Sinner e Djokovic; una sfida che per certi versi si è declinata come uno scontro tra due modelli diversi, direi opposti, di mascolinità.

I due sono diversi in tutto, a partire dagli aspetti fisici: Sinner è longilineo, sottile, quasi imberbe. Il berrettino bianco che porta sempre in testa e che a malapena contiene una gran matassa di capelli rossi gli dona un’aria da ragazzino.

Djokoviv è scuro, massiccio, con una barba di tre giorni che conferisce un aspetto ulteriormente truce al suo volto.

Il suo sguardo è severo, aggressivo. E’ il re assoluto, il maschio ormai sportivamente anziano che ha vinto più di chiunque altro, che non vuole abbandonare lo scettro del potere e che è disposto a difenderlo con ogni mezzo dagli attacchi del giovane pretendente.

La sua fonte di energia è l’idea della sua stessa grandezza, e spesso la sua rabbia: se il pubblico lo fischia lui lo provoca a sua volta, desidera la sfida, il duello. Anche l’odio altrui lo carica e quando realizza un punto esulta quasi selvaggiamente.

Sinner ha un atteggiamento completamente diverso: durante il gioco appare sempre serio, concentrato; se commette un errore non si dispera, se mette a segno un punto esulta compostamente, e se alla fine vince la partita non lancia urla, non si getta a terra, ma guarda i suoi compagni di squadra e sorride, come un bambino che ha appena commesso una marachella ma che sa come farsi perdonare.

Forse, rifletto, l’accostamento al telegiornale di quelle due notizie così sideralmente distanti ci può comunque dire qualcosa. Forse dei buoni modelli di mascolinità ci possono essere proposti non solo dalla famiglia, dalla scuola, ma anche dallo sport, che non a caso è spesso al centro degli interessi dei ragazzi, e possibilmente non solo dal calcio, che seppure con lodevoli ma rare eccezioni di solito offre all’attenzione del pubblico personaggi gonfi di spavalderia e sbruffonaggine.

Continuo a correre, sono ormai dalle parti di Casa del Boia e sono così immerso nelle mie considerazioni che non mi accorgo di essere in rotta di collisione con una ragazza che sta correndo in direzione opposta alla mia. Ce ne accorgiamo con sorpresa entrambi, e come spesso accade in questi casi scartiamo contemporaneamente dallo stesso lato, di modo che siamo ancora lì lì per scontrarci. Ci scambiamo uno sguardo che inizialmente è di reciproco fastidio, poi entrambi, all’unisono, ci mettiamo a ridere e collocandoci finalmente su due rette che non si scontrano ci oltrepassiamo, proseguendo ciascuno per la propria strada.

Mi sembra una piccola metafora di una separazione tra un uomo e una donna.

“Dovrebbe andare sempre così” penso.

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