Lettere al Direttore
25 Aprile 2020

Il 25 Aprile: da Saba a Bella Ciao, passando per Fenoglio

di Redazione | 6 min

Basta un minimo di raziocinio mentale e, al più, un’esimia base di conoscenza scientifica, per rispondere a quesiti di infima banalità, del tipo: se scaldi l’acqua a lungo, poi finisce per bollire? Oppure: se pianti un seme nel concime e lo innaffi ogni giorno, prima o poi ti ritrovi con un fiore? O anche: se il sole è tramontato, in un secondo momento sorgerà e viceversa, no? Beh, non è detto: nulla è detto se c’è l’uomo di mezzo.

E se un giorno ci dicessero che non rivedremo mai più il sole, perché qualcuno si sta mostrando capace di coprirlo, saremmo in grado di reagire?

Forse sono discorsi troppo assurdi, è vero. Qualcuno li taccerebbe di dissoluto esistenzialismo; qualcun altro, cavalcando l’onda del “Neomedioevo” che ci apprestiamo a vivere, richiederebbe l’intervento della censura e magari della Santa Inquisizione, accusandomi di allegorismo complottista a discapito delle leggi divine.

Visti i presupposti, mi converrebbe essere più concreto…Ma come la prendereste se vi dicessi che ci fu un tempo, non troppo lontano, in cui l’oscurità calò l’asso sull’Italia?

Era il 29 ottobre del 1922, quando cinquantamila squadristi bardati di eleganti camicie nere fecero un pacifica passeggiata in quel di Roma.

Il loro capo, un vero cuor di leone, si trovava su un treno a Milano, pronto all’imminente fuga, qualora le cose si fossero messe male. Ma, pensa che (s)fortuna!, in quei giorni sulla già precaria cecità regia aveva infierito pure quello stramaledetto gretto opportunismo politico, che portò ‘sì tanta oscurità, per l’appunto, sulla nostra Nazione.

Insomma, per farla breve, in pochi anni, sir. Mussolini – forte di qualche intimidazione e di un paio di leggeri pestaggi (e che vuoi che sia!), accompagnato da un due o tre omicidi a destra e a manca, facendo passare una Legge Acerbo alquanto discutibile (con il 25% dei voti, ti facevi su i 2/3 della Camera senza batter ciglio) e aggiungendo un paio di provvedimenti liberticidi (ma nulla di serio, eh) – riuscì a legittimare la sua dittatoriale ascesa, in un clima di parossistico terrore nei confronti dell’altro Totalitarismo (“Uno spettro si aggira per l’Europa – lo spettro del C…”).

Ebbene, ritornando al discorso da cui si son prese le mosse, non è difficile credere che, per un periodo che si sarebbe protratto per vent’anni, un velo più che mai oscuro coprì gli occhi degli italiani e dei nostri indigesti cugini tedeschi. Un velo che negò a tutti la visione del sole, come una nebbia densissima. E se ti metti a guidare in una strada piena di curve, con gli occhi coperti, è facile che tu non ne esca vivo: chiedete a Hitler e al fratellino più scemo, sir. Mussolini, che portarono la loro benda sul volto di tutti, provocando una guerra, condita con le tristemente note Leggi razziali.

L’avvento del Nazifascismo venne vissuto come un vero e proprio tramonto, in primis della cultura.

Questo è il teatro degli Artigianelli,

quale lo vide il poeta nel mille

novecentoquarantaquattro, un giorno

di Settembre, che a tratti

rombava ancora il cannone, e Firenze

taceva, assorta nelle sue rovine.

Nel 1944 il poeta ebreo, Umberto Saba, viveva a Firenze da clandestino, cambiando in continuazione domicilio, per fuggire dall’orrore del razzismo persecutorio e, nel componimento citato, descrive un aneddoto autobiografico: ci parla di quando assistette alla messa in scena di uno spettacolo allestito, dal Partito Comunista, su un palco rudimentale, a seguito della ritirata nazista (il loro arrivo in città venne descritto da Eugenio Montale in Primavera hitleriana nel 1939).

Saba descrive un’atmosfera carica di un silenzio quasi incolmabile: il silenzio delle rovine della storia e della cultura di Firenze, una città-mito universale, che si erge a simbolo della distruzione lasciata dalla guerra e proiettata negli animi di chi è rimasto. È un mondo disastrato, eppure è impossibile lasciarselo alle spalle, nonostante ci si sforzi bevendo vino – che rosseggia parco ai bicchieri, che rimargina ferite, chiudendo solchi dolorosi – provando a estraniarsi da una realtà, che oramai faceva solo ribrezzo.

Era un mondo quantomai pianeggiante e desertico, quello di Saba: una landa desolata, solcata dal buio di una notte lunga e apparentemente senza fine, determinata dalle percosse di un regime violento, contro il quale non si trovò altra risposta che non fosse anch’essa violenta, quantunque non frontale, ma proveniente dall’alto, dalle colline del centro Italia, dai partigiani e dagli Alleati. Insomma, dalla Resistenza: questa era formata per lo più da ex fascisti pentiti e comunisti arrabbiati, che, divisi in brigate di pochi uomini, iniziarono a praticare una guerriglia violenta e dissestata. Non avevano né armi né vettovaglie e per questo presero di mira, in primis, piccole guarnigioni tedesche e italiane, per poi rifugiarsi in montagna, dove, seppur in minoranza, sarebbero comunque stati in vantaggio contro il nemico, di gran lunga più organizzato di loro.

Fatti, questi, raccontati da scrittori che si sono appropriati di diritto della storia letteraria del Novecento italiano, come Beppe Fenoglio, che con Il partigiano Johnny, riuscì a rendere perfettamente l’idea di una guerra che si era gradualmente trasformata in una dicotomia esistenziale tra pianura e collina.

Se lascerò quella collina sarà soltanto per salire su una più alta, nell’arcangelico regno dei partigiani” diceva Johnny, un giovane studente appassionato di lingua inglese, che decise di combattere al fianco dei partigiani, per lottare contro l’annebbiamento del totalitarismo nazifascista.

Johnny era stanco di quel buio che tentava di stendersi nel greve cielo dove le stelle erano appuntate come sul velluto, destinate a scomparire col passaggio di un aereo di sconosciuta nazionalità, forse waged e pilotato da un moderno aeronautico capitano Nemo, che la voce popolare asseriva mitragliasse tutte le luci violanti l’oscuramento, in una fanatica istanza di tenebra assoluta.

Johnny desiderava vedere nuovamente l’alba, voleva che una qualsiasi tra le luci vincesse su quel nero opaco che sembrava tanto preminente, che aveva quel gusto così aspro di carenza democratica, di censura del pensiero libero, di sprezzante accentuazione delle differenze etniche. Ed è quello che avremmo desiderato tutti (o quasi).

E questo desiderio dovrebbe bastarci per credere giusta, nel senso più vivido di giustizia, la Festa del 25 aprile; e allo stesso modo, per riconoscere il valore dell’azione partigiana, dovremmo ricordarci consapevolmente che essa contribuì, con i suoi modi poco ortodossi, a restituire all’Italia l’alba della vittoria di una dignitosa Resistenza, per anni oscurata dall’erotomane desiderio dei Pochi di controllare l’esistenza dei Molti.

Perciò il 25 aprile cantate! Perché una dittatura ha cercato di abolire il sole. Cantate Bella ciao a squarciagola, proprio in memoria di quell’azione che, buona o cattiva che fosse, restituì al popolo italiano la libertà di alzare la voce:

...E questo è il fiore del partigiano

O bella ciao, bella ciao, bella ciao ciao ciao

E questo è il fiore del partigiano

Morto per la libertà

Francesco Franchella

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