Attualità
2 Maggio 2020

La febbre Spagnola a Ferrara: i giornali

di Redazione | 8 min

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Era il 1986 quando entrai per la prima volta all’Archivio di Stato di Ferrara. Ero una matricola del corso di laurea in Storia Moderna della facoltà di lettere e filosofia di Bologna e il professor Paolo Sorcinelli ci aveva indirizzato agli archivi di Stato per fare ricerche sull’epidemia di febbre spagnola per l’esame di storia sociale. Da alcuni mesi dirigo l’Archivio di Stato cittadino e mai averi immaginato di recuperare quanto avevo scritto trentatré anni or sono, ad un secolo di distanza da quella pandemia che fece decine di milioni di vittime nel nostro pianeta.

In queste settimane si è potuto notare come la cronaca quotidiana di quanto sta accadendo dal mese di gennaio non abbia insegnato nulla ai politici di mezzo mondo: basti vedere l’atteggiamento tenuto da Spagna, Francia, Regno Unito e U.S.A., indifferenti a ciò che stava accadendo in Italia ed anzi, spesso addirittura irridenti nei nostri confronti per i provvedimenti sanitari presi, certi quasi che le loro nazioni sarebbero rimaste immuni dal Covid-19. Se la cronaca non ha insegnato nulla, la storia ha insegnato ancora meno: relativamente a ciò che stiamo vivendo, sentiamo spesso dire che si tratta di cose mai viste prima. Nulla di più falso: un secolo fa i nostri bisnonni hanno vissuto un’esperienza per molti aspetti decisamente peggiore rispetto a ciò che stiamo vivendo noi ora.

L’esplosione della Spagnola accompagnò gli ultimi mesi della Grande Guerra. In realtà tra la fine della primavera e l’inizio del 1918 erano già state registrate strane febbri. Nel mese di maggio a Bologna erano apparsi i primi casi di una febbre detta “dei tre giorni”, mentre nel nostro territorio le prime notizie furono quelle riportate su ‘La Provincia di Ferrara’ del 16 giugno 1918, in un articolo in cui, riferendosi a Roma, pur tentando di non allarmare il lettore, si tentava di capire quale fosse l’origine di questo strano fenomeno apparso tra la fine della primavera e l’inizio dell’estate. Dengue o febbre da pappataci che fosse, il responsabile dell’ufficio igiene del comune di Roma la classificò come malattia epidemica che, per trasmissibilità, sintomi e decorso, era da ritenersi “una forma simile all’influenza”.

Quindici giorni più tardi il ‘Dottor Y’, anonimo autore dell’articolo, rendeva chiaro che la febbre era arrivata anche in città: la debilitazione durava per una settimana circa e le conseguenze fisiche lasciate sulle persone che si erano ammalate si ripercuotevano anche sulla società, ad esempio sul mondo agricolo che rischiava di vedersi sottrarre preziosa manodopera nel periodo più importante dell’anno. L’allarme iniziava così ad aumentare: allo Stato «spetta il compito di provvedere con buone norme igieniche seriamente applicate, specialmente in rapporto ad una attiva ed accurata profilassi zanzaricida, alla salvaguardia della salute della popolazione». Chiaro il timore che come la malaria, ancora estremamente diffusa nel 1918 nella nostra provincia, anche questa febbre fosse portata dalla puntura della zanzara o, per meglio dire, del phlebotomus pappataci (“La febbre del giorno”, La Gazzetta Ferrarese).

Nell’estate 1918 Il mondo medico non sembrava però per nulla allarmato da quanto stava accadendo, ritenuto un fatto sì strano, ma le cui origini, seppur non unanimemente condivise da tutto l’ambiente scientifico, erano comunque individuabili. Nulla, insomma, lasciava presagire ciò che sarebbe successo da lì a qualche settimana.

I giornali ferraresi, pur essendosi verificata già a partire dai mesi di agosto e settembre una recrudescenza delle morti dovute all’influenza e, ancor di più, alle sue complicazioni, inizieranno ad occuparsi in modo costante della Spagnola solo dal mese di ottobre, quando i casi di infezione e di morte nella provincia si conteranno ormai a centinaia.

Negli articoli di tutte le testate inerenti la pandemia sembra essere sempre presente un tema: le pesanti critiche nei confronti dei governanti locali e nazionali per la tardiva attuazione di misure profilattiche come, ad esempio, la chiusura di quei luoghi pubblici che potevano rivelarsi pericolosi focolai, come i teatri, i cinematografi e le chiese (“Le nostre condizioni sanitarie”, Gazzetta ferrarese, 6 ottobre 1918). Le critiche erano pressoché quotidiane: le norme decise erano ritenute contraddittorie, il prezzo del chinino (rimedio che, seppur antimalarico, venne consigliato per la profilassi) era aumentato senza che fosse cresciuta la sua disponibilità e la chiusura delle farmacie per un’ora e mezza di pausa pranzo e la loro turnazione domenicale di apertura erano ritenute uno scandalo vista la grave situazione (“I mali e i rimedi nel doppio senso della parola”, Gazzetta ferrarese, 7 ottobre 1918).

Il problema del caro prezzi non riguardava però il solo mondo farmaceutico (“I prezzi delle medicine ed i Farmacisti”, Gazzetta ferrarese, 22 ottobre 1918), ma quello dei prodotti alimentari. Non si deve dimenticare, infatti, che si era in pieno periodo bellico e anche i prezzi di uova, latte, carne, farina e tanti altri prodotti, seppur calmierati, erano notevolmente cresciuti. Il Prefetto si trovò costretto ad ordinare ai medici della provincia di provvedere all’alimentazione dei malati, autorizzando che venissero loro somministrati anche gli stessi prodotti di norma dati ai neonati, come semolino e latte condensato (“L’andamento dell’epidemia influenzale. Il comunicato della R. Prefettura”, Gazzetta ferrarese, 21 ottobre 1918).

Qual era la corretta profilassi da seguire? La popolazione era spaesata e mancava senz’altro chiarezza: solo per riportare due esempi, in alcuni casi si consigliava di bere frequentemente mentre in altri di astenervisi (“L’epidemia in provincia”, Gazzetta ferrarese, 12 ottobre 1918); altri suggerivano di non usare in alcun modo la tintura di iodio (“La febbre spagnola. Norme di prevenzione e di cura”, Gazzetta ferrarese 5 ottobre 1918) mentre altri ancora suggerivano di aggiungerne due gocce all’acqua per la disinfezione delle mucose nasali e della gola (“L’epidemia in provincia”, Gazzetta ferrarese, 12 ottobre 1918). L’igiene del cavo orofaringeo divenne ben presto anche l’obiettivo di pubblicità: dalle pillole Pink al dentifricio Zarri ad esempio che, prodotto nella vicina Bologna, veniva venduto nella profumeria ‘Longega’ di corso della Giovecca 43-45, o ancora alla «Sirolina» prodotta dalla Roche «di sapore gradevole e ben tollerata ha sicura efficacia perfino in catarri bronchiali inveterati, influenza, dopo polmoniti».

Nei giorni del picco epidemico, dopo la riunione svoltasi l’8 ottobre in Prefettura per valutare lo stato della salute pubblica, il prefetto Orazio Giuffrida attuò provvedimenti ritenuti però da tutti estremamente blandi, ritoccando gli orari di apertura di cinematografi e farmacie, vietando alle persone di sputare a terra (“I provvedimenti contro la forma influenzale”, Gazzetta ferrarese, 10 ottobre 1918). A Ferrara non si giunse mai alla chiusura dei locali pubblici, né a quella delle chiese e neppure al divieto del suono delle campane durante i funerali, anche se questa richiesta comparve su un giornale (“Il suono delle campane”, La Rivista, 24 ottobre 1918) e questa mano leggera non mancò di destare forti critiche, anche perché la situazione nei giorni successivi non sembrava davvero migliorare: «Qui non si adottano precauzioni come in altre città. Per esempio si lasciano i morti in casa per tre giorni, e questo è il colmo! Non si chiudono i cinematografi. Non si fanno disinfezioni nei negozi e nelle strade» (“Per la tutela della salute pubblica”, Gazzetta ferrarese, 20 ottobre 1918).

Dall’esplosione della Spagnola è passato un secolo, ma le norme consigliate per tentare di evitare il contagio, non si discostano di molto da quelle odierne: «stare lontani dall’affollamento di gente, dalla polvere, dai luoghi rinchiusi dove l’aria è confinata. Fuggire i tossicolosi, coloro che sputano sul pavimento e sul fazzoletto e starnutano e proiettano goccioline di saliva parlando. Non baciare e accarezzare gli estranei e possibilmente, non stendere la mano in segno di saluto. Non frequentare le compagnie specialmente se composte di persone provenienti da località lontane. Astenersi decisamente dal visitare gli ammalati. Chi a mal di gola e raffreddore non baci i famigliari né usi i loro oggetti personali (…) La pulizia delle mani e della faccia si ripeta più volte nella giornata e specialmente prima di mangiare e prima di coricarsi e quando si ritorna da pubblici locali e dopo di aver toccato le maniglie e porte di treni, tram ecc.» (“Per evitare l’influenza”, La Provincia di Ferrara, 8-9 ottobre 1918).

Si tentò anche di alleggerire il clima comprensibilmente pesante che l’influenza aveva portato in tutta la provincia: alcuni sostenevano che la ‘paura’ poteva a ragione essere ritenuta, se non una causa della malattia, un veicolo che ne poteva amplificare la diffusione e quindi andava combattuta. Con questa intento un giornale pubblicò un breve parodia del atteggiamento tenuto dal ferrarese medio nei confronti della Spagnola: incerto sul da farsi, sulla cura preventiva da seguire e se prendere il mentolo o il chinino, un giorno credette di aver contratto il virus: «Un brivido in rapida maratona mi percorse il filo della schiena. – E’ finita – mormorai lugubremente a me stesso. E’ la Spagnola! Entrai in casa, mi precipitai nel letto, chiamai il medico. Esculapio venne, mi palpò e scrisse su un pezzetto di carta la diagnosi del mio male: fifite acuta!» (“Il bacillifugo”, La Rivista, 24 ottobre 1918).

La paura però, sentimento più che umano che ci difende da rischi e pericoli, sarebbe continuata per mesi, come le polemiche sui giornali: «Non è questione di allarmare la cittadinanza, è questione di fare in modo che vada all’altro mondo il minor numero di persone possibile. Sarebbe abbastanza grottesco che per tema d’impressionare la popolazione, si facilitasse quasi il diffondersi di una malattia della quale non si conoscono ancora le origini» (“L’influenza”, Gazzetta ferrarese, 16 ottobre 1918).

Queste sono solo alcuni spunti ricavati dai giornali di quelle settimane, quando, come vedremo nei prossimi giorni, la pandemia di Spagnola infierì pesantemente anche nel ferrarese, in modo però (ed anche questo potrebbe trovare un legame con quanto sta accadendo oggi) in modo senz’altro meno pesante rispetto alle province confinanti.

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