Cronaca
12 Luglio 2019
Pubblicate le motivazioni della sentenza sull'aumento di capitale del 2011 con la quale il tribunale ha condannato l'ex presidente Lenzi e l'ex dg Forin

Carife. I giudici: “Rischio dell’aumento di capitale fatto ricadere sui piccoli investitori”

di Daniele Oppo | 5 min

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(foto di Alessandro Castaldi)

Un’operazione da concludere a tutti i costi, così da far tirare avanti la Carife e sollevarla almeno un poco dalle gravi difficoltà in cui versava. Anche a costo di far sostenere il peso di tutto ciò alle spalle di chi non ne aveva la forza. A cinque mesi esatti dalla fine del processo, giovedì sono state depositate le motivazioni della sentenza sull’aumento di capitale da 150 milioni operato dalla Carife nel 2011 con la quale il tribunale collegiale ha condannato l’ex presidente Sergio Lenzi a 2 anni e 6 mesi e l’ex direttore generale Daniele Forin a 2 anni a 3 mesi, mandando assolti tutti gli altri nove imputati.

Lenzi e Forin sono stati condannati per la redazione di un falso prospetto informativo (capo d’imputazione 1), distribuito ai potenziali azionisti; di aver dato false informazioni (aggiotaggio, capo 2 e per Lenzi anche capo 6, con alcuni non doversi procedere per intervenuta prescrizione), mancando di aggiornare il prezzo delle azioni (21 euro ciascuna) in ragione del risultato consolidato di bilancio molto negativo conseguito nel 2010 e diffondendo comunicati stampa non veritieri; di aver ostacolato la vigilanza Consob (capi 3 e 4), omettendo di informarla sui requisiti richiesti da Bankitalia in merito all’aumento di capitale (raggiungere un tier-1 ratio almeno dell’8% e che l’aumento fosse diretto a soggetti idonei a valutare il rischio), nonché omettendo di aggiornare le previsioni contenute nel prospetto sulla base ai risultati 2010.

“È stata proprio la necessità di portare a termine l’operazione di aumento di capitale nell’oggettiva difficoltà di reperire investitori adeguati per gli obiettivi di rafforzamento imposti dalla Vigilanza a indurre gli imputati (Lenzi e Forin, ndr), quali amministratori dell’Emittente (Carife, ndr), a fornire ai potenziali investitori, in prevalenza clientela retail, una rappresentazione della situazione fuorviante e distorta occultando i dati e le informazioni che potessero scoraggiare gli stessi ed incidere negativamente nel loro giudizio di opportunità dell’investimento”, si legge in quello che è forse uno dei passaggi più significativi presenti tre le 279 pagine di motivazioni.

Informazioni date in maniera distorta e fuorviante per garantire il buon esito dell’aumento di capitale da 150 milioni di euro, “così facendo ricadere l’assunzione del rischio in prevalenza su una tipologia di piccoli investitori (retail) con minori capacità conoscitive e valutative”. I numeri qui fanno capire meglio l’impatto: l’aumento di capitale, come rilevano i giudici in sentenza, è stato sottoscritto per soli 35 milioni di euro da investitori istituzionali, banche comprese,  e per ben 115 milioni da privati e retail.

In particolare viene contestata la modalità con cui nel prospetto informativo (ma anche in alcuni comunicati stampa) è stata presentata una situazione della Cassa più solida (sia nel presente che in prospettiva) di quanto fosse in realtà. “Nel prospetto informativo – scrivono i giudici – le difficoltà della Cassa sono state ricondotte alla generale e sistemica crisi del settore creditizio senza alcuna menzione delle gravi carenze gestionali e patrimoniali che avevano determinato il deterioramento della situazione”. E ancora, l’obiettivo del Tier 1 ratio al 7,90% da ottenere con l’aumento di capitale, è stato “presentato come ben al di sopra dei coefficienti minimi richiesti anche se in realtà era inferiore all’obiettivo necessario richiesto”. Sempre i giudici scrivono che “nel prospetto sono state fornite informazioni incomplete e fuorivianti sui coefficienti patrimoniali e sulla determinazione del prezzo per ciascuna azione, attraverso l’omessa evidenza degli effetti sulle previsioni formulate per gli anni 2011-2014 derivanti dai dati reali di bilancio al 31/12/2010: si trattava di informazioni che afferivano alle ragioni dell’operazione di aumenti e alle sue reali finalità e, pertanto, hanno inciso sulla valutazione di rischiosità dell’investimento”.

Responsabilità  – pur riconoscendo e valorizzando il “delicato contesto in cui si sono trovati a operare” – che cadono solo su Lenzi e Forin perché, di fatto, gli unici ad avere contezza della reale situazione della Banca e delle reali richieste di intervento presentate da Banca d’Italia e, soprattutto, gli unici ad avere ampio potere decisionale per compiere le azioni poi effettivamente poste in essere. In questa situazione, altri imputati chiave nella prospettazione accusatoria – come Davide Filippini (ex direzione Bilancio, considerato dalla procura il Deus ex machina di tutta l’operazione) – mancano di alcuni elementi costitutivi (come l’effettivo potere di azione e, in definitiva, l’elemento soggettivo) per poter integrare le ipotesi di reato contestate, anche quando, come accade con l’ostacolo alla vigilanza di Consob, materialmente vi hanno contribuito (così rilevano in sostanza i giudici in riferimento a Filippini e Michele Masini di Deloitte).

Ostacolo alla vigilanza di Consob. E a tal proposito, Lenzi e Forin “con piena coscienza e volontà”, hanno omesso “di informare l’organo di vigilanza in ordine alla rilevanza dell’entità dell’aumento di capitale ed alla qualità dei potenziali investitori”, violando così il rapporto di correttezza “che necessariamente doveva informare le interlocuzioni tra ente vigilato e vigilante”, che avrebbe altrimenti fatto integrare il prospetto informativo. Stesso discorso per la mancata informazione sul mancato aggiornamento del piano industriale in base al bilancio 2010 e alle previsioni 2011-2014.

Le operazioni tra banche considerate pienamente legittime. I giudici, aderendo alle prospettazioni difensive, smontano invece uno dei punti cardine dell’accusa, che era anche il più coraggioso e complesso: quello relativo alle operazioni simulate e formazione fittizia di capitale tramite sottoscrizioni reciproche per circa 15 milioni di euro operate tra Carife (e le sue controllate Carife Sei e Banca di credito di Romagna), CariCesena e Banca Popolare Valsabbina, che avrebbero concorso a generare il dissesto della Cassa ferrarese. Per i giudici, quelle operazioni hanno invece “comportato un effettivo aumento di capitale di Carife in quanto poste in essere tramite azioni acquistate sul mercato, azioni proprie già interamente liberate e sottoscrizioni di capitali che, ancorché reciproche, in quanto effettuate tramite l’utilizzo di riserve disponibili, risultano aver avuto concreta incidenza sui capitali in effetti aumentati”. Vale a dire, erano operazioni pienamente legittime e regolari.

In ogni caso, rilevano i giudici, “la portata di tali operazioni dal punto di vista economico-patrimoniale è stata talmente ridotta rispetto all’entità complessiva dell’operazione di aumento di capitale deliberato da Carife, da non potersi ritenere idonea ad incidere in modo significativo sul concreto esercizio dell’attività di vigilanza che Banca d’Italia esercitava”.

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