Spettacoli
5 Luglio 2019
Il settimo libro del cantautore bolognese apre uno spaccato sui retroscena del mondo della musica e dei nomi che ne hanno fatto la storia

Da Morandi a Mina, Andrea Mingardi si racconta in ‘professione cantante’

di Redazione | 3 min

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Professione cantante. Quel mestiere “che non dà garanzie, che non è quotato in borsa e che spesso è osteggiato dal volere dei genitori e altri parenti. E che quando ti chiedono ‘cosa fai?’ e tu rispondi che vai in giro per le città e i locali a suonare e cantare, ti rispondono: ‘Ah, che bello. Ma che lavoro fai?’”.

L’ironia di Andrea Mingardi non ci mette neanche un secondo a rapire l’intera Sala Agnelli della Biblioteca Ariostea, che giovedì pomeriggio ha eccezionalmente riaperto con un appuntamento culturale (sebbene da calendario fossero ormai chiusi) che non poteva mancare.

Il settimo libro del cantautore bolognese – ‘Professione cantante’, per l’appunto – apre uno spaccato sui retroscena di un mondo a cui “l’immaginario comune accosta l’idea di Rino Gaetano in bianco e nero che canta ‘Gianna’ o la falsa speranza che Califano se ne sia andato felice”, afferma schietto Mingardi, dopo aver raccontato, tra le risa e gli sguardi ammaliati del pubblico, fior di aneddoti sul suo passato, che si è intrecciato con alcuni dei nomi più importanti della storia della musica italiana.

“Basta pensare a Morandi – racconta – che all’improvviso non ricevette più una telefonata per diec’anni. Uno che ha avuto folle oceaniche ai piedi, e gente che gli saltava addosso per strada, improvvisamente si è ritrovato a iscriversi al conservatorio e a giocare a pallone. E’ assieme a lui e a Mogol che abbiamo fondato la Nazionale Italiana Cantanti”.

E per un soffio non ci è scappata la Spal, perché “quando giocavo a calcio, il Bologna chiese alla Spal 10 milioni per me, che erano tantissimi. Ma per fortuna che non è andata così, perché se avessi giocato in serie A poi non sarei più riuscito a cantare”, ironizza.

Del resto non sarebbe riuscito nemmeno a scrivere 25 canzoni per Mina, con la quale il celebre cantautore non ha mai perso i contatti sin dai tempi in cui “si chiamava ‘Baby gate’ e non ancora Mina – racconta – e io e suo fratello, Geronimo, andavamo nella bassa ferrarese a far danni”.

“Poco tempo fa Mina mi ha telefonato, il che già di per sé è un fatto senza precedenti perché non telefona a nessuno da quarant’anni – prosegue – per dirmi che aveva trovato un pezzo che pensava fosse mio, che voleva utilizzare. E riascoltando la mia vocina che cantava un inglese maccheronico, mi sono reso conto che non ce l’avevo più. Tutto ciò ha dell’incredibile, la gente quando lo racconto non ci crede. Mina sceglie i miei pezzi, li prova nel suo studio a Lugano, e poi me li fa sentire. Ha inciso ‘Ci vuole un po’di rock n’ roll’ nel suo ultimo disco, che è uno dei miei pezzi di punta, ed ero convinto che mi avrebbe chiesto di ritirarlo. E invece mi ha detto: ‘che meraviglia, non è mai successo che due artisti abbiano inciso lo stesso pezzo contemporaneamente’. Una donna di una generosità incredibile, e con un dono incredibile. L’unico motivo per cui non è diventata la più grande cantante del mondo è che ha paura dell’aereo e delle navi”.

E a proposito di dono, ciò da cui Mingardi vuole mettere in guardia è la faciloneria illusoria del giorno d’oggi, in cui “sembra che le case discografiche avvallino canzoni di personaggi nonostante siano completamente senza musica, non suonino nessuno strumento, ma accostino semplicemente una melodia preconfezionata su internet ad un testo tutto sommato accettabile. Ho ascoltato rapper, e anche trapper, e i precursori di questo genere, e alcuni fanno cose interessanti – afferma, complimentandosi con Mahmood per la sua vittoria a Sanremo – ma la cosa brutta è che chi organizza questi talent, queste associazioni a delinquere, non fanno altro che mettere questi ragazzi nelle condizioni di avere delusioni pazzesche. Ti dicono che sei un fenomeno, finchè i riflettori sono accesi. E la caducità di questo mestiere, ho pensato che fosse bene raccontarla”.

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