Attualità
24 Giugno 2019
Cinquecento anni fa se ne andava la più celebre tra le duchesse degli Este

Ferrara e Lucrezia Borgia, un’occasione persa

di Redazione | 5 min

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di Piero Stefani

Scena prima. Si entra a Villa d’Este a Tivoli. Lo stupore e la grandiosità la fanno da padroni. In questo sito dell’UNESCO l’attenzione del visitatore è attratta dal giardino in cui è disseminato un numero impressionante di fontane, ninfei, grotte, giochi d’acqua, macchine musicali idrauliche. Il tutto fu eretto per iniziativa del cardinal Ippolito II d’Este. Scena seconda: siamo di fronte alla tomba dei genitori del cardinale. Essa si situa all’opposto della magnificenza scenografica, è appartata, addirittura seminascosta. Si è davanti a una semplice lastra di marmo con sobrie scritte e un non ostentato stemma nobiliare. Là, nel coro delle clarisse del monastero Corpus Domini di via Campofranco, assieme a quella di vari altri estensi, riposano i corpi dei genitori di Ippolito: Alfonso I e Lucrezia Borgia, la figlia di papa Alessandro VI, morta il 24 giugno del 1519.

Per celebrare il cinquecentenario della scomparsa della più universalmente nota tra le sue duchesse, Ferrara si è ispirata più alla sobrietà della tomba che alla grandiosità della villa. Nel 2002, a cinquecento anni dall’ingresso di Lucrezia a Ferrara, ci fu una pubblica rievocazione storica culminata con la salita dello scalone municipale; là, in cima alla rampa, l’allora sindaco Gaetano Sateriale accolse l’attrice che impersonava la futura duchessa circondato da figuranti in costume. Quest’anno c’è stata solo una modesta ripresa nel carnevale estense. Dal canto suo l’Istituto di Studi rinascimentali in autunno dedicherà a Lucrezia Borgia un convegno tanto di elevato valore scientifico quanto di minima presa sul grande pubblico. Il teatro comunale ben si è guardato dal mettere in scena il dramma di Victor Hugo (1833) che tanta parte ha avuto nella creazione della «leggenda nera» di cui la figura di Lucrezia Borgia è tuttora circondata a livello popolare. Figuriamoci se poteva esserci qualche spiraglio per rappresentare al Comunale l’omonima opera di Donizetti (su libretto di Felice Romani direttamente ispirata dal dramma dello scrittore francese e rappresentata allo scadere di quello stesso anno). A quanto ne so, non si è neppure pensato di riproiettare pubblicamente «Lucrezia Borgia. Un’intervista impossibile di Maria Bellonci» di Florestano Vancini (2002). Cinquecento anni non sono una ricorrenza qualsiasi, e Lucrezia Borgia non è un nome qualsiasi. Poteva essere un’occasione per attirare l’attenzione sulla nostra città e per sfatare le tante distorsioni sorte attorno a questa figura.

Per quanto del tutto involontario, il conformarsi alla sobrietà della tomba è però, per alcuni versi, cifra giusta. Negli ultimi anni, soprattutto grazie alle ricerche di Gabriella Zarri, è stata messa sempre più in luce la spiritualità autentica che contraddistinse almeno gli ultimi anni di vita della duchessa di Ferrara. Quando morì era terziaria francescana e da un po’ di tempo il cilicio non era estraneo al suo corpo. Certo la vita sia mondana sia religiosa di una nobildonna del Rinascimento va giudicata con parametri diversi dagli attuali. Quando si legge qualsiasi biografia dei Borgia, anche le più scientificamente sorvegliate, lo sconcerto è sempre dietro l’angolo. Con tutto ciò non si può mettere in dubbio la sincerità della fede di Lucrezia. Non si tratta, ben s’intende, di compiere qualche forzato processo di non richiesta santificazione. Quanto è in ballo è favorire la crescita di un approccio critico alla storia che destituisca di fondamento molti ingiustificabili miti. Si tratta di un’operazione che si estende ben al di là del caso di Lucrezia. Colto in questa luce più ampia, siamo di fronte a un compito civile quanto mai urgente.

Rievocare le ultime ore di vita di Lucrezia è un’operazione che va direttamente nel senso appena descritto. Il 22 giugno 1519, la trentanovenne duchessa dettò una missiva a papa Leone X. Lei, figlia di Alessandro VI, comunica al figlio di Lorenzo il Magnifico asceso al soglio pontificio di aver ricevuto la grazia, per quanto peccatrice, di sapere che la sua fine è ormai prossima. Aveva partorito da poco. Era nata Isabella Maria, una bimba gracile; tutto lasciava ritenere che la sua vita non sarebbe stata lunga. Così effettivamente fu; l’esistenza della piccina si prolungò solo per un paio d’anni. L’ennesima gravidanza di Lucrezia era stata difficile; quando si sgravò, credette dapprima di star avviandosi verso il risanamento, ben presto si accorse di star invece peggiorando cosicché affermò di essere convinta che «mi è forza concedere alla natura». Era conscia della prossimità della morte perché il «clementissimo Creatore» le aveva fatto il dono di sapere che fra poche ore sarebbe uscita dalla vita terrena, avendo però prima ricevuto tutti i santi sacramenti della Chiesa. Chiedeva quindi al pontefice qualche tesoro spirituale e una benedizione per l’anima sua; gli raccomandava infine il consorte e i figli. Lucrezia d’Este sarebbe deceduta due giorni dopo.

Il padre spirituale e confessore della duchessa negli ultimi anni di vita fu il domenicano Tommaso Caiani, discepolo diretto di Girolamo Savonarola. Ci è anche pervenuta la missiva da lui indirizzata ad Alfonso d’Este in occasione della morte della duchessa di Ferrara. In essa il padre domenicano dichiarava che, essendo stato testimone per anni della vita interiore di Lucrezia, conosceva la limpidezza della sua coscienza, la sua prontezza nel conformarsi alla volontà di Dio, la profondità del suo desiderio di riposarsi in Cristo; aggiungeva infine che: «io vorrei per gratia del Signore che l’anima mia fosse in quella sicurtà di salute in la quale tengo fermamente essere la sua». Che in queste parole ci sia qualche eccesso consolatorio può ben essere; resta comunque difficile credere che un seguace di Savonarola si sia lasciato vincere dalla piaggeria e dall’ipocrisia.

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