Vigarano
12 Aprile 2019
Il regista parla del Ferrarese dopo le riprese del suo ultimo film. Sabato sarà ospite di una serata musicale del Gruppo dei 10

Pupi Avati: “Il vostro territorio unica parte dell’Emilia che non si è svenduta”

di Redazione | 3 min

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Pupi Avati

di Cecilia Gallotta

Le nebbie della ‘bassa’ riescono ancora una volta a trascinare Pupi Avati nel Ferrarese, che dopo le riprese del suo ultimo film tra le valli di Comacchio, sarà ospite della serata di sabato, alle 20.30, allo Spirito di Vigarano assieme al Gruppo dei 10. Questa volta protagonista sarà la musica, che, volente o nolente, ha accompagnato il celebre regista bolognese ancor prima della sua carriera cinematografica.

Già dagli anni Settanta ha intravisto del potenziale nel nostro territorio, con ‘La casa dalle finestre che ridono’. E adesso, con ‘Il signor Diavolo’. Che legame conserva?

Il vostro territorio è l’unica parte dell’Emilia che non si è svenduta, che ha mantenuto un rapporto col passato non pregiudicato. Da Bologna a Piacenza è ormai quasi tutto contaminato dalla modernità, e poi, c’è la qualità delle persone. Lì sono sempre stato accolto splendidamente. Certo, il cinema dà sempre una certa visibilità, ma mi è capitato per esempio di girare in alcune zone di Bologna, dove la gente era esplicitamente infastidita dalla mia presenza. Dalle vostre parti, sento ancora l’Emilia della mia infanzia.

Entrambi i film girati qui si contraddistinguono per il loro genere noir/horror. C’è un motivo particolare?

Sono luoghi così suggestivi, così evocativi e poco compromessi, che sembra che il tempo si sia fermato non da secoli, ma da millenni. Sono luoghi tra il meraviglioso, il paradisiaco e l’inquietante, soprattutto quando si alza la nebbia. Non per niente Igor il Russo [sorride] ha scelto proprio questi posti. Ferrara comunque, credo che dell’Emilia sia la città più bella.

Ma dietro alle cineprese, nasconde un passato da musicista, come clarinettista della Criminal Jazz Band, poi divenuta Doctor Chick Dixieland Orchestra…

Sì, e porto ancora le cicatrici di quello che per me è stato un fallimento. Può non sembrare, ma la musica jazz è molto competitiva, si arriva a suonare brani che sono dei veri e propri duelli. E finire quasi sempre tra i peggiori non era certo gratificante. A un certo punto ho smesso di suonare, agli inizi degli anni Sessanta, perché mi sono reso conto di non avere talento a sufficienza. Poi mi sono messo a vendere surgelati per quattro anni, finché la mia vena artistica è ricomparsa col mio primo film, nel ’68.

Che rapporto ha col Gruppo dei 10? Come vi siete conosciuti?

Conosco molto bene Alessandro Mistri e questa sua passione che sta diventando quasi preoccupante [ride] perché va avanti da non so quanti anni ormai, non essendo poi lui nemmeno un vero musicista. Lui, ovviamente molto più giovane di me, era un appassionato di jazz già dai tempi in cui io suonavo, e ci siamo conosciuti quando venivo nei locali a Ferrara: era quasi impossibile sfuggire a Mistri. Lui comunque, ha conservato la natura dell’emiliano di una volta, quella della generosità umana. Rarissima ormai, soprattutto negli ultimi tempi.

Che ruolo ha continuato ad avere la musica nella sua carriera cinematografica?

E’ evidente che avendo avuto questo tipo di frustrazione, la musica nel film è quasi come se dovesse adesso obbedire a me, e non il viceversa. Ma ciò che ha reso grande la musica nei miei film è stato il rapporto con il compositore Riz Ortolani: abbiamo fatto 35 film insieme, lui era musicalmente molto colto, e abbiamo sempre avuto tantissima affinità. Ha composto per me musiche, e colonne sonore, bellissime.

C’è un film che sente ancora di dover girare?

Sì, ed è proprio legato a Ferrara. E’ un film tratto dalle memorie del papà degli Sgarbi, ‘Lei mi parla ancora’, e del loro matrimonio. Ho già scritto la sceneggiatura. Adesso, vediamo un po’ se ce lo faranno fare…

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