Attualità
16 Marzo 2019
Ferrara è una città accogliente? All'incontro delle associazioni rispondono in centinaia. Ouedraogo: "Parlare di mio Paese è un regalo a me stessa, serve una piccola lotta quotidiana contro l'odio anche se i risultati non sono immediati"

“Prima gli italiani? Prima il genere umano, come per i partigiani”

di Redazione | 4 min

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L’ex sala macchine della factory Grisù in via Poledrelli si è riempita di centinaia di persone per chiedersi, nel corso di un incontro organizzato congiuntamente da ‘Il battito della città’, ‘La città che vogliamo’ e ‘Addizione Civica’, se Ferrara sia una città aperta in un dialogo interculturale per favorire l’integrazione.

“Non siamo gli unici ad avere problemi di convivenza, anche se la sensazione è che siano diventati possibili atti che 5 anni fa sarebbero stati inammissibili”, ha esordito Guido Barbujani, genetista e professore all’Università di Ferrara, che poi parte da una semplice ricerca su Google per immagini rispondenti alla parola chiave ‘razza’ — che risponde con immagini di amicizia o prese da film in caso contrario — per un ragionamento secondo il quale “nel mondo di Internet, e nel pensiero anglosassone al quale è assoggetto, si sono resi conto che su questi temi non si scherza e non si soffia sul fuoco. Da noi non è così”.

La diffidenza verso il diverso, tuttavia, secondo “studi di psicologia sperimentale fatti negli Stati Uniti” che mostrano come “ogni volta che si vede una persona si attiva un’area del cervello che fa un’identificazione binaria: o è come me o non lo è, alla base delle prime classificazioni razziali”, è comunque naturale: “Non dobbiamo spaventarci davanti a queste reazioni”, ha spiegato Barbujani, “perché siamo fatti così, il mondo dal quale proveniamo geneticamente è di coloro che sono sopravvissuti, ovvero che non si fidavano, perché all’epoca riconoscere in fretta un alleato da un potenziale nemico era importante”.

Certo, il problema è poi quello di “superare i pregiudizi”, anche perché “nessuno si è mai messo d’accordo sul numero delle razze, che all’inizio erano 27 poi sono cresciute a dismisura fino ad oltre 200 e al freno arrivato negli anni ’60”. Il perché di tutto questo è da ricercare nelle migrazioni: “Siamo andati ovunque, le radici servono alle piante, noi abbiamo le gambe e ci siamo mescolati molto. Oggi riusciamo a guardare nel Dna, e le differenze tra noi e il nostro vicino di casa rispetto a una persone che vive dall’altra parte del mondo sono inferiori al 10%”.

“Noi ogni giorno cerchiamo di instaurare rapporti con le persone, solo con il lavoro di cittadinanza attiva capiamo davvero il senso di inclusione, perché le persone non sono i freddi numeri dei dati degli sbarchi. E quando ci si batte per i diritti degli altri si difendono automaticamente anche i propri”, è stato invece il commento di Adam Atik dell’associazione Cittadini del Mondo, secondo il quale poi per i problemi in zona Gad “bisogna lavorare insieme, questa è la risposta, e non quella di qualcuno che non vive la situazione. La soluzione non è militare”.

A portare la sua testimonianza di integrazione c’è anche Roberto Morgantini, fondatore di ‘Cucine Popolari’ a Bologna (che ne contra tre in altrettanti quartieri ma vuole espandersi fino a sei) dopo aver avviato anche l’esperienza di ‘Piazza Grande’, giornale di strada contro l’esclusione sociale. “Più città dovrebbero essere aperte, predisposte all’integrazione e ala contaminazione alla quale non dovrebbero sottrarsi”, spiega, “ma purtroppo assistiamo alla chiusura degli spazi sociali, ai muri tenuti insieme dalla paura dell’altro giustificando un clima di tensione alimentato dalle etichette. Ci sono forme di intolleranza mai viste prima”.

“Prima gli italiani è una frase che mi consuma come un tarlo, la priorità va data al genere umano o almeno così mi hanno insegnato i miei genitori che erano partigiani”, ha aggiunto Morgantini. “È necessario aprire gli occhi della città all’incontro con altre culture. Il buio genera paura. Dopo 4 anni con Cucine Popolari abbiamo numeri di cui andare fieri e un dato umano, oltre a un esercito di volontari”.

Di “dimostrazione di amore verso la città e il nostro Paese” parla invece Leaticia Ouedraogo, studentessa universitaria a Venezia assunta agli onori delle cronache lo scorso anno per aver risposto con una lettera aperta ad alcune scritte che inneggiavano alla morte dei ‘negri’ apparse nei bagni della sua facoltà. “Mi sono sempre sentita l’altro di qualcuno, l’Italia è un Paese che non è mai stato ‘mio’, ma sono anche un po’ italiana dopo 10 anni di vita qui, e così sono stata più gentile verso me stessa ed usare ‘mio Paese’ è un bel regalo che ho fatto a me stessa”, ha spiegato nel suo racconto.

“Ho ricevuto implicitamente delle minacce di morte. Quello che vogliamo far capire è che siamo tutti gli altri di qualcun altro, e prima dobbiamo amare noi stessi, poi riconoscerlo fa sì che in noi ci siano più empatia e apertura. È questo per cui stiamo tutti lottando”, ha aggiunto. L’esempio che porta è quello della guerra civile tra Burkina Faso e Costa d’Avorio: “Il razzismo è ovunque, siamo molto simili dappertutto”.

La soluzione, anche per lei, è “lavorare e lottare insieme. Una lotta piccola, per la quale non ci sono risultati immediati, ma è un lavoro che esige pazienza e onestà. Smettere però è peggio, e l’odio è la peggior risposta all’odio. Dobbiamo lavorare sul presente perché il futuro non sia un’utopia, e Greta ci ha dimostrato che non siamo mai soli e che manifestare ha senso. L’unica paura che dobbiamo avere è quella di avere paura”.

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