L'inverno del nostro scontento
13 Febbraio 2019

Ciò che inferno non è. Salvini, la Costituzione e la “difesa della patria”

di Girolamo De Michele | 11 min

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Riprendo sul mio blog questa “lezione” costituzionale pubblicata ieri su “Jacobin Italia” e su “Euronomade”

1. Il ministro degli interni Matteo Salvini ha citato, a sostegno della propria azione avversa alla nave della Guardia Costiera Diciotti per la quale rischia un processo per sequestro di persona, e più in generale della propria intenzione di “sigillare le acque territoriali italiane alle navi SGRADITE come quelle delle delle Ong”, l’art. 52 comma 1 della Costituzione: “La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino”. Una citazione che si inserisce, con qualche calpestìo nei confronti della lingua patria, in un clima di revival sovranista della parola “patria”, con le significative convergenze di ⇒Veneziani e ⇒ Fassina. Vale dunque la pena di dare un’occhiata alla sua presenza nella Costituzione.

Questo termine è usata con molta parsimonia nella Costituzione: ricorre solo due volte, nel succitato art. 52, e nell’art. 59, che norma l’istituto dei senatori a vita riservato a quei cittadini “che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario”. La ragione di questa prudenza è evidente: il significato della parola “patria” era stato sovradeterminato dal regime fascista. Il suo uso non poteva non richiamare quelle politiche imperialistiche (“La parola d’ordine del movimento insurrezionale fascista fu: salvare la Patria e condurla alle sue mète imperiali”, Il primo libro del fascismo) e razzistiche (“L’amore di Patria è anche un atto di fedeltà alla razza, perché chi ama veramente la propria Patria vorrà che in essa si mantenga pura l’eredità dello spirito e del sangue”, Il secondo libro del fascismo) che molti costituenti avevano combattuto armi in pugno. Del resto, la stessa parola “confini” i costituenti non l’hanno mai usata: una lacuna che segnala come la patria non sia intesa come uno spazio fisico delimitato da mari e monti, come un tempo s’insegnava: ed è notevole è che nell’art. 59 “patria” faccia segno a buone prassi nel campo sociale, scientifico, culturale.
L’art. 52, a rigore, normava il servizio militare: tale era la “difesa della Patria” di cui si parla (in merito, gli atti del dibattito costituente sono inequivoci). A volerlo isolare dal contesto costituzionale, appare ben strano che questo sacro dovere si eserciti in opposizione a una nave della guardia costiera, che quel “sacro dovere” lo compie di mestiere e con mestiere: sarebbe bizzarro negare che la marina militare non possegga tutti gli strumenti utili a decidere, nell’esercizio del dovere di soccorso in mare, se i soccorsi, nelle condizioni di estremo pericolo in cui sono stati recuperati, costituiscano o meno un pericolo per la patria.
Ma l’art. 52 dice, se riferito al complesso degli articoli, ben altro. In primo luogo, il suo riferimento ai doveri del cittadino lo congiunge ai “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (art. 2); al “pieno sviluppo della persona umana” (art. 3) col quale si concorre alla realizzazione dell’utilità e della solidarietà sociale, come sottolineato dalla giurisprudenza costituzionale (cfr. Corte Costituzionale, sentenze ⇒ 119/2015, ⇒ 228/2004, ⇒ 309/2013); e al dovere di concorrere al progresso materiale e spirituale della società (art. 4). La difesa della patria si configura perciò come difesa e promozione attiva di quell’insieme di pratiche, istituzioni, dispositivi che concretizzano quei “diritti inviolabili dell’uomo” che la Repubblica “riconosce e garantisce” (art. 2).
A maggior ragione, questa connessione si esplicita con l’abolizione dell’obbligo del servizio militare maschile, che sembrava formalmente esaurire il dovere di servire la patria, facendo intravedere in filigrana un soggetto lavoratore maschio adulto (e ovviamente bianco ed eterosessuale) come protagonista esclusivo di tale obbligo. Con l’introduzione del servizio civile e la fine dell’obbligatorietà di quello militare, e con la cessazione del privilegio maschile ed eterosessuale nel prestare tali servizi, il quadro costituzionale ha subito una profonda trasformazione. Lasciando la parola alla Corte Costituzionale (Corte Costituzionale, ⇒ sentenza 119/2015),

il dovere di difesa della Patria, letto in connessione con l’art. 2 Cost., non si risolv[e] in attività finalizzate a contrastare o prevenire un’aggressione esterna al territorio dello Stato e dei suoi confini, ma [è] ora esteso sino a ricomprendere forme spontanee di impegno sociale non armato, volte alla salvaguardia e alla promozione dei valori comuni e fondanti il nostro ordinamento.

L’istituzione del servizio civile nazionale mostra come la difesa della patria consiste nel “partecipare in modo attivo alla costruzione di una democrazia sana e di nuove forme di cittadinanza, consentendo di colmare il divario tra i bisogni collettivi e le risposte pubbliche, in un’ottica di promozione e di tutela dei diritti, soprattutto dei soggetti più vulnerabili e svantaggiati”. E poiché

le attività svolte nell’ambito dei progetti di servizio civile nazionale rappresentano diretta realizzazione del principio di solidarietà, l’esclusione dei cittadini stranieri dalla possibilità di prestare il servizio civile nazionale precluderebbe il pieno sviluppo della persona e l’integrazione nella comunità di accoglienza, impedendo loro di concorrere a realizzare progetti di utilità sociale e, di conseguenza, di sviluppare il valore del servizio a favore degli altri e del bene comune.

Non a caso “viene evidenziato che agli stranieri regolarmente soggiornanti nel territorio dello Stato è riconosciuto il godimento «dei diritti in materia civile attribuiti al cittadino italiano» (art. 2, comma 2, del d.lgs. n. 286 del 1998)”.
Sembra evidentissimo che il dovere di difesa della patria sia inscindibile dal rispetto dei diritti inviolabili dell’uomo sancito dall’art. 2, e dalla saldatura di questi diritti con i doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Dove per “uomo” non si intende una mera entità definita dal suo status giuridico o politico, come chiarirono nel dibattito costituente Aldo Moro (uno degli estensori dell’articolo) e Meuccio Ruini, presidente e relatore della commissione: l’uomo (meglio sarebbe stato dire “essere umano”) qui nominato va considerato “nella molteplicità delle sue espressioni” che non si esauriscono nello Stato, e che preludono alla libertà di formare aggregati sociali, libertà senza al quale l’uomo non sarebbe davvero libero; per questo fu respinta la proposta di sostituire il termine “uomo” con “cittadino”: perché l’essere umano trova espressione “nelle manifestazioni politiche del cittadino, ma non si esaurisce in esse” (verbali dell’Assemblea Costituente, seduta pomeridiana del 24 marzo 1947 [⇒ qui], in particolare pp. 2415-18). La convergenza dei costituenti marxisti (Basso, Iotti, Laconi, Grieco fra gli altri) su questa formulazione non ha alcunché di compromissorio: per Marx l’essere umano è un “essere generico” privo di luogo e di habitat, e che proprio per questo è dotato di una potenza di essere che espande in tutte le direzioni. L’essere umano è un essere potenziale che in quanto potenziale si sposta, crea mondo: ogni limitazione a questa potenza di creare il mondo e di espandersi in tutta la dimensione è una riduzione dell’umanità, sino alla vendita di questa potenzialità che trasforma l’essere umano in merce. E dunque, a maggior ragione non può l’essere umano ridotto alla mera definizione di “clandestino”, che è uno status giuridico attribuito da una legge, peraltro infame, che non esaurisce l’intera sua potenzialità.

Dovessi concludere sul piano dell’esegesi della Costituzione, direi che il richiamo, fatto da Salvini, all’art. 9, comma terzo, della legge costituzionale n. 1/1989, dove si stabilisce che il Senato può negare l’autorizzazione a procedere “ove reputi, con valutazione insindacabile, che l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo” è addirittura controproducente. Non solo in punta di diritto (su questo rimando ai competenti interventi del costituzionalista Roberto Bin su laCostituzione.info, ⇒ qui e ⇒ qui), ma soprattutto perché non si vede come sia stato tutelato l’interesse dello Stato, o sia stato perseguito un interesse pubblico preminente, nel calpestare la lettera e la sostanza di quella saldatura di diritti e doveri che costituiscono l’essenza di quella patria la cui difesa è un dovere. A meno di non parafrasare un noto costituzionalista serbo, peraltro considerato “zingaro” in anni nei quali questo appellativo non aveva valenza diffamatoria, che oggi direbbe: “interesse pubblico è ciò che governo decide che sia”.

2. In altre occasioni mi sono occupato di dimostrare che la Costituzione usa la parola razza proprio per negare quel concetto [⇒ qui], dal momento che non riconosce discriminazioni fra cittadini, né limitazioni di diritti fra italiani e stranieri presenti sul territorio della Repubblica. La Costituzione adopera la parola con la r per ricordarci che c’è stato un tempo in cui gli esseri umani erano discriminati: per razza, sesso, convinzione religiosa, opinione politica, condizione sociale, orientamento sessuale. Qui vorrei provare ad andare oltre il piano costituzionale con due considerazioni.
La prima è che la stessa estensione dei termini costituzionali dalle parole alle cose, vale a dire lo stesso ordine del discorso non cristallizzato al 1947, ma quale si configura oggi, ci costringe a prendere atto del fatto che anche la nostra Costituzione assume come perno una figura omogenea di cittadinanza, – dietro la quale occhieggiano i tratti dell’eterosessualità maschile, bianca, occidentale – che appare ormai al tramonto. Nel mondo globalizzato, attraversato da conflittualità, gerarchie, segmentazioni in buona parte ignote ai costituenti, il soggetto appare caratterizzato da eterogeneità e differenze, oltre che dalla precarietà non solo lavorativa, ma sociale, emotiva, identitaria. La figura del migrante – dove per “migrante” non si intende il mero situarsi su una barca, un treno, una frontiera, ma l’interezza dei suoi vissuti, il prima e dopo del suo essere qui e ora sotto i riflettori dell’opinione pubblica (o in quell’ombra che, sfuggendo alle telecamere e allo sguardo corto dei politici di mestiere, consente più discreti attraversamenti dei quali i governanti preferiscono fingere ignoranza) – allude, non solo sul piano simbolico, alla dimensione globale della crisi, e delle soggettività che la attraversano. Potrei dire che i migranti sono l’irruzione del reale nella nostra immaginaria quotidianità velata da uno schermo sul quale viene proiettato un film al quale fingiamo di credere (e qualcuno finisce col crederci davvero). Un reale cui di fatto alludono quelle interpretazioni che curvano il dettato costituzionale verso una dimensione sovranazionale dell’essere umano: una dimensione che si intreccia in modo inestricabile con la precarizzazione delle esistenze, delle condizioni di vita, del lavoro, fino alla dimensione emotiva, relazionale, passionale. Esercitare il dovere di solidarietà, agire per colmare il divario tra “i bisogni collettivi e le risposte pubbliche”, non può prescindere dalla constatazione che oggi “i soggetti più vulnerabili e svantaggiati” sono tali perché attraversati, da processi transnazionali: basti pensare al come e quanto incide sui soggetti locali, migranti e non, la dimensione transnazionale della logistica al cuore dell’impresa capitalistica odierna.
Tutto questo deve spingerci a prendere in considerazione l’ipotesi di un costituzionalismo critico – che sia capace di esercitare, nella difesa dello spirito dei diritti costituzionali, una critica dello stato di cose presenti – che accetti in modo radicale “la sfida di abbandonare le grammatiche della sovranità e dei poteri costituiti nazionali e collocarsi sullo stesso piano transnazionale” che i processi di globalizzazione investono (Giso Amendola, ⇒ Costituzioni precarie, manifestolibri 2016, p. 77).
Come ha sottolineato Luigi Ferrajoli (Gli strumenti contro il decreto Salvini ci sono. Serve mobilitarsi, “il manifesto”, 6 gennaio 2019, ⇒ qui) gli strumenti giuridici per opporsi al decreto-sicurezza esistono, e sono concreti: ma devono essere accompagnati da una mobilitazione di massa a loro sostegno. Dunque, occorre riscrivere i diritti fondamentali a partire dalla loro titolarità comune, che coniughi l’ermeneutica giuridica creatrice di nuovo diritto, guardando all’applicazione concreta delle norme e alla loro interpretazione più che alla legge come valore assoluto, con le lotte che attuano diritti di resistenza e riappropriazione sul piano dell’ambiente, dei diritti – a partire dal diritto di fuga –, dell’abitare, come si stanno dando nelle prassi e nei conflitti: dalle manifestazioni per l’apertura di porti e confini alle disobbedienze civili dei sindaci (da Riace a Palermo) e alle sperimentazioni di nuovi diritti municipali, da Barcellona a Napoli.

3. Seconda considerazione. Che l’azione del governo possa configurarsi come una colpa criminale è questione che afferisce ai diversi gradi di giudizio: dirimerla spetta ai tribunali. Ma, come insegnò Carl Jaspers nella sua celebre lezione sulla colpa all’indomani della Seconda guerra mondiale, non esiste solo la colpa penale. Essere innocenti davanti alle leggi e ai tribunali non comporta l’assoluzione rispetto ad altre tipologie di colpa: quella morale, che risponde alla coscienza, sempre che se ne abbia una; la colpa politica, che comprende anche la responsabilità di chi, per ignavia o incapacità, favorisce l’azione di chi causa il male; la colpa metafisica, che ha a che fare con l’esistenza del male nel mondo, e con l’inadeguatezza di quel che facciamo per ridurlo – se non quanto facciamo per accrescerlo. Scriveva Calvino, nella chiusa de Le città invisibili:

L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.

Ciò che è inferno, è non solo che si muoia, ma soprattutto che si possa girare la testa dall’altra parte e rimanere indifferenti e ignavi di queste morti; che si possa ripetere, fino a crederci, una menzogna con cui ci si autoassolve – ad esempio, che ne muoiono meno in mare, ben sapendo che ne muoiono di più nei lager libici. O che la sprezzante affermazione di un musico opportunista – non è colpa mia se le panchine sono piene di gente che sta male – sia diventata una frase che molti italiani portano stampata sulla t-shirt con la quale credono di riparare la propria anima dal freddo che hanno dentro.
L’alternativa alla riduzione dello spazio infernale è essere risucchiati dalla corrente verso la città infernale: è la spirale nella quale ci stanno avvolgendo le politiche criminali – sul piano morale, politico, metafisico – non solo degli attuali Salvini, Di Maio, Conte, Toninelli, ma anche dei loro predecessori Minniti, Renzi, Gentiloni, capaci di rivendicare la paternità dei crimini commessi dall’attuale governo. Salvo postare per Natale la foto del bambino morto, per avere tanti follower da spendersi al sushi bar sotto casa.
Dovrebbero, gli uni e gli altri, quelli di adesso e quelli di prima, dimettersi da esseri umani: se di umanità gliene fosse rimasta un’oncia.

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