Attualità
17 Novembre 2018
Un gruppo di ricerca coordinato dai prof Zamboni e Gemmati ha scoperto dei marcatori genetici che potrebbero evitare operazioni chirurgiche e anche decessi

Unife scopre una via genetica per predire il rischio di occlusioni intestinali

di Redazione | 3 min

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Paolo Zamboni e Savino Occhionorelli

Sono all’origine di un intervento chirurgico di urgenza ogni due, possono causare infertilità femminile e, in 8 pazienti su 100, portare al decesso. Si tratta delle occlusioni intestinali causate dalla sindrome aderenziale, un blocco del tratto intestinale che si verifica soprattutto dopo gli interventi chirurgici, senza avvisaglie e anche a distanza di anni.

Lo scenario potrebbe drasticamente – e positivamente – ribaltarsi, grazie alla recente scoperta di un gruppo interdisciplinare dell’Università di Ferrara, che per la prima volta è riuscito a identificare alcuni marcatori genetici capaci di predire il rischio di sviluppare la malattia. La ricerca è stata pubblicata oggi sulla prestigiosa rivista internazionale Scientific Reports.

Il gruppo, coordinato dal professor Paolo Zamboni (dipartimento di Morfologia, chirurgia e medicina sperimentale dell’Università di Ferrara) per la parte clinica e dal professor Donato Gemmati (Centro Studi Emostasi e Trombosi) per la parte genetica, lavora da oltre 10 anni in campo traslazionale per l’identificazione di biomarcatori capaci di prevedere l’andamento di patologie complesse. Il team comprende anche il dottor Savino Occhionorelli, responsabile della chirurgia d’urgenza dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria di Ferrara che dirige proprio il reparto dove vengono eseguiti in emergenza gli interventi per occlusione intestinale, e la dottoressa Veronica Tisato del Laboratorio per le Tecnologie delle Terapie Avanzate Ltta di Unife.

“Fino ad oggi l’assenza di marcatori predittivi ha fatto sì che la complicanza esordisse acutamente, senza alcun segno premonitore e senza avere la possibilità di riconoscere le persone a rischio”, spiega il professor Paolo Zamboni: “Ma adesso i nostri risultati aprono grandi opportunità per la prevenzione, favorendo la salute di ogni singolo paziente e riducendo considerevolmente i costi sanitari”.

“Analizzando il Dna dei pazienti che erano stati ricoverati abbiamo individuato dei polimorfismi, ovvero delle varianti genetiche, comuni a tutti coloro che avevano sofferto di questa malattia” precisa il professor Donato Gemmati: “In particolare, abbiamo visto come alcuni polimorfismi presenti nei geni del Fattore XIII (F13A1 e F13B) possano essere associati in maniera significativa al rischio di sviluppare una sindrome aderenziale o addirittura un’occlusione intestinale”.

Racconta il professor Zamboni: “L’idea iniziale ci è venuta osservando al microscopio elettronico il processo di riparazione dei tessuti. Notammo come le ferite di soggetti portatori delle varianti geniche del Fattore XIII guarissero sviluppando fibre abnormemente più spesse, e ipotizzammo che questa prerogativa potesse contribuire a spiegare il mistero delle spesse aderenze che imbrigliano fino ad occludere le anse intestinali”.

“Da allora il lavoro è stato molto lungo, anche perché in laboratorio dovevamo caratterizzare i geni di persone operate almeno una decina di anni prima. Questa ricerca aprirà nuovi orizzonti in senso diagnostico, prognostico e preventivo” aggiunge Donato Gemmati “e forse a sviluppi impensabili nel campo della farmacogenomica, che permette di affinare la risposta ai farmaci di ciascun paziente sulla base delle proprie caratteristiche genetiche”.

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