Terre del Reno
8 Settembre 2018
Le motivazioni della sentenza per la morte dell'operaio durante il terremoto del maggio 2012

Sisma e crolli Tecopress. Tutte le mancanze che costarono la vita a Cesaro

di Daniele Oppo | 4 min

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Dosso. Sarebbero bastate tra cose per salvare la vita a Gerardo Cesaro, l’operaio deceduto nel crollo del capannone Tecopress in seguito alla scossa sismica delle 4.03 del 20 maggio 2012.

Tre cose di cui erano responsabili il legale rappresentante dell’azienda, Enzo Dondi, e l’addetta alla sicurezza, Elena Parmeggiani, entrambi condannati a maggio a 6 mesi di reclusione per omicidio colposo. È il giudice Vartan Giacomelli, nelle motivazioni di una sentenza che è la prima di questo tipo per i crolli avvenuti durante il sisma emiliano a elencarle, indicandole come azioni doverose per entrambi gli imputati, ciascuno secondo il proprio grado di responsabilità. Serviva una “valutazione della sicurezza sulle costruzioni esistenti soggette ad azioni sismiche e quindi della loro vulnerabilità”, la redazione di “procedure di emergenza nei confronti del sisma” e, non meno importante, un’“attività di formazione dei lavoratori”, affinché sapessero come comportarsi.

Tutto questo mancava alla Tecopress, fino al 2013, quando è stato redatto il Piano per le emergenze.

“È ragionevole ipotizzare che – scrive il giudice nelle 55 pagine di sentenza – ove il lavoratore avesse ricevuto un’idonea formazione su come reagire all’evento ed adeguate informazioni su come e dove cercare riparo con l’individuazione di luoghi sicuri, avrebbe potuto salvarsi”.

E avrebbe potuto salvarsi anche se, dopo il 2003, anno in cui il Ferrarese è stato formalmente identificato come zona sismica, la proprietà di Tecopress si fosse attivata per verificare la capacità del capannone di ‘affrontare’ un evento sismico, valutando tutti i rischi e i rimedi possibili. “Con la classificazione del 2003 del territorio di Sant’Agostino come sismico – scrive Giacomelli – sussistevano in capo al datore di lavoro della ditta Tecopress obblighi di adottare misure di prevenzione, di protezione e di carattere informativo per i lavoratori anche per il rischio sismico”.

Questo perché da quel momento in poi, “il rischio sismico era certamente prevedibile e prevedibili erano anche le sue conseguenze per l’incolumità dei lavoratori: tra esser anche il decesso del lavoratore Cesaro”.

C’era, sì, un piano emergenza datato 2006 che prendeva in considerazione anche terremoto, ma lo faceva, a detta del giudice, in maniera inefficace, con “una prevenzione ‘sulla carta’ che non aveva alcuna idoneità sostanziale rispetto al rischio che mirava a prevenire”. Ma la presenza stessa di un piano, per quanto inutile, è la conferma di “come il datore di lavoro all’epoca fosse pienamente consapevole della sussistenza di un obbligo di valutazione del rischio e di adozione di misure per prevenirlo”.

E se Dondi, in quanto datore di lavoro, aveva un obbligo di proteggere la sicurezza dei dipendenti, la Parmeggiani ha colpa per “omessa segnalazione al datore di lavoro circa la necessità di svolgere verifiche sulla compatibilità strutturale del capannone con tale rischio e di adottare le misure per gestire l’emergenza”

Uno dei modi per farlo era individuare sul luogo di lavoro dei punti sicuri, sotto cui trovare riparo anziché darsi alla fuga: “L’assenza dell’indicazione di punti sicuri all’interno del capannone”, scrive il giudice in merito al comportamento di Cesaro in una situazione per la quale non aveva alcuna preparazione, “gli ha impedito di cercare rifugio e l’ha indotto a fuggire verso l’esterno esponendolo al pericolo, quando la possibilità di ripararsi sotto strutture idonee avrebbe con alta probabilità evitato il decesso”. Cesaro venne ritrovato sotto le macerie in un punto tra il muro di confine del capannone e la strada esterna che lo costeggia.

La controprova al ragionamento del giudice, per quanto fortuita, è fornita da come si è salvato un suo collega, vivo “perché le travi in caduta si sono fermate sopra l’assale del carrello ove si era riparato”. Segno che, come prevede il piano del 2013, si potevano indicare anche i macchinari come aree di sicurezza, oltre alla realizzazione di strutture più specifiche.

A monte, però, c’è la struttura del capannone, costruito nel 1992 che per il pm Ciro Alberto Savino e il suo consulente (il prof. Claudio Comastri) non rispondente alla norme strutturali per la sicurezza in caso di sisma. Anche il giudice appoggia questa tesi, rilevando come dal momento in cui Ferrara è divenuta zona sismica, imperava sul datore di lavoro un obbligo di verificare il capannone e adeguarlo, predisponendo interventi strutturali per renderlo più resistente a un ipotetico sisma. La questione è quella della tanto dibattuta ‘legatura’ tra travi e pilastri. Non obbligatoria nel 1992 – e per questo i progettisti e i tecnici (Dario Gagliandi, Modesto Cavicchi e Antonio Proni) sono stati assolti – necessaria almeno dal 2003 in poi, perché da lì in poi era mutato l’obbligo cautelare in capo a Dondi. Un intervento per legare travi e pilastri avrebbe evitato il crollo improvviso, forse lo avrebbe evitato del tutto, sicuramente avrebbe dato il tempo al povero Cesaro di uscire dal capannone e salvarsi insieme ai suoi compagni di lavoro.

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