Eventi e cultura
24 Agosto 2018
“Il vestito di taffetà” chiude la trilogia che vede protagonista il vecchio scrittore Fraschenor

Gian Pietro Testa contro il morbo del terzo millennio, l’ignoranza

di Marco Zavagli | 4 min

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Gian Pietro Testa

Di vero ci è rimasta solo l’ignoranza. E Gian Pietro Testa lo grida, anzi lo scrive, a gran voce. Lui, che ha “lottato tutta la vita contro l’ignoranza e ora nuoto in una mare di ignoranza”. E “Il vestito di taffetà”, il suo ultimo romanzo uscito per i tipi di Este Edition, è un manifesto, solo apparentemente leggero, al morbo che appesta il terzo millennio.

Protagonista è ancora Giuseppe Garibaldi Fraschenor, il suo alter ego letterario. Brontolone, ipercritico e “incazzato”. Se al mio taccuino l’autore confida di essere “sempre più incazzato, non so se per via dell’età mia o dell’imbecillità degli altri”, anche il buon Fraschenor cade spesso nella “spocchiosa abitudine di incazzarmi e sparare catilinarie al mondo intero, convinto di essere l’unico, l’unico integerrimo, l’unico intelligente”.

“Il vestito di taffetà” chiude la trilogia che vede protagonista il vecchio scrittore. Dopo aver attraversato ”Io sono il milite ignoto” e “Il rocchetto di Ruhmkorff”, l’uomo che non pensa mai, pensa solo di pensare, è sul letto di ospedale. Ricoverato per un malore dopo aver attraversato a nuoto la Manica (“era il mio sogno da giovane”, strizza l’occhio l’autore), in realtà “è stato portato via da una tempesta sui nostri lidi e sbattuto sull’Isola dell’amore”.

Attorno al suo letto si forma un salotto. La gente parla attorno al malato. Unico suo conforto il dialogo con il medico, che a tratti ricorda il Faust e l’eterna lotta tra Bene e Male. “Anche il diavolo – afferma nel libro il medico/Mefistofele – ha scoperto che con la politica si può dire tutto e il contrario di tutto”. Nel terzo millennio il Bene e il Male non esistono più. O forse convivono. Lo scontro si è spostato tutto su ignoranza e contrasto all’ignoranza. Ma le forze ormai sono troppo sproporzionate.

E oggi Testa può tranquillamente affermare, senza tema di essere smentito, che “questa società è sul limite di un burrone. Anzi, stiamo già precipitando. Non lo dico, o almeno non solo, perché sono vecchio, ma per quello che sta succedendo. Spaventa la vittoria dell’ignoranza che si accompagna a violenza e incapacità di crescere. Io non sono un moralista, ma ci sono dei principi irrinunciabili in una società. E se li accantoni, come abbiamo fatto, allora è finita. Oggi c’è addirittura protervia nell’affermare l’ignoranza. Il non ignorante è visto con diffidenza. Non so se finirà mai questo declino. E io non ho più tempo per aspettare. Posso solo attendere di essere ferito mortalmente da una impudica lancia di ignoranza”.

A salvarlo rimane l’ironia. Ironia che nel libro si scioglie a tratti in spunti di vero umorismo. Come nello storpiamento dantesco che porta Fraschenor a pensare “gli occhi sollevò dal fiero pesto”, per indicare i nuovi eroi televisivi, esperti in alternativo o di capelli o di cibo. E accanto all’ironia rimane, quasi nascosta per paura di essere scoperta da occhi ignoranti, la poesia che lo ha sempre accompagnato dai tempi di “Antologia per una strage”, fino a “Via di Gatta marcia”, ultima sua opera in versi di ormai nove anni fa.

Da allora però qualcosa è cambiato e oggi Gian Pietro Testa racconta con il pensiero rivolto agli anni andati. Quando ancora si poteva parlare di poesia. Quando ancora esisteva la poesia. “La poesia è morta, è morta la pittura, la letteratura in generale. È inutile parlare di morte ai morti”.

E anche “Il vestito di taffetà”, battezzato da un fluire apparentemente frivolo, sfocia in una tragedia. “Nella trama si inserisce una storia vera, accaduta nella Ferrara di 40 anni fa – spiega l’autore -. Diventa un paradigma di una società ormai slabbrata, dove la gente fa quello che vuole. Nel libro c’è un bambino. Addosso ha le ali d’angelo che gli ha regalato sua madre. È simbolo della tenerezza che abbiamo sconciato e ammazzato”.

A un certo punto nel salotto improvvisato di questa stanza di ospedale arriva la tragica notizia, che è preludio al finale angosciante, chiuso a sua volta da una frase sbadata della figlia del protagonista. Una frase che riassume in sette parole l’epoca in cui viviamo. In cui ci siamo condannati a vivere.

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