Attualità
15 Giugno 2018
Rudra porta avanti la sua battaglia accanto a Patrizia Moretti: "Non siamo contro lo Stato, ma contro la protezione"

Aldo Bianzino, il figlio a Ferrara: “Fu ucciso in carcere, voglio verità e giustizia”

di Elisa Fornasini | 5 min

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“Mio padre non me lo ridà nessuno, Federico nemmeno, ma pretendo che queste storie non capitino più. Continuo a parlare perché non accetto di vivere in uno Stato così, se stessi zitto sarei complice. E se la chiamo battaglia – come quella di Aldro, Cucchi, Uva – è perché si ingaggia una vera e propria lotta. Non contro lo Stato, ma contro il muro di gomma delle istituzioni che dovrebbero essere le prime a volere la verità quando si muore sotto la loro custodia. Non mi darò pace finché non cambierà l’atteggiamento di omertà e copertura da parte dello Stato. Non possiamo permetterlo in un paese democratico”.

È il grido di battaglia di Rudra Bianzino, il figlio di Aldo che a 11 anni dalla morte misteriosa del padre nel carcere di Perugia ha presentato richiesta per la riapertura del processo per omicidio. La sua testimonianza risuona nel giardino del circolo Arci Blackstar. È venuto a Ferrara a raccontare la sua storia perché si sente “vicino al caso Aldrovandi, a Patrizia”. E noi la riportiamo così come ce l’ha descritta, dagli antefatti che ha vissuto all’età di soli 14 anni fino ad oggi.

“La storia di mio padre inizia il 12 ottobre 2007, quando viene condotto in carcere per il possesso di alcune piante di marijuana e 20 euro in contanti, di cui si è assunto la responsabilità per uso personale ma nonostante questo portano via anche mia madre Roberta, con la promessa che sarebbe tornata la sera stessa. Vengo lasciato da solo, con mia nonna di 91 anni, nel casolare dell’appennino umbro-marchigiano in cui vivevamo”.

Questa storia finisce il 14 ottobre, “quando il suo corpo esanime viene rinvenuto nella cella di isolamento dopo nemmeno 48 ore di detenzione“. Era una domenica mattina. “Verso le 9 mia mamma viene chiamata negli uffici del carcere di Capanne e incontra il vice ispettore capo che la interroga sulle possibili patologie di mio padre. Mia madre non ne conosce, era sano, e viene rimandata in cella dicendole che lui era in ambulanza verso l’ospedale di Perugia, ‘possiamo ancora salvarlo’ hanno detto”.

Un paio d’ore dopo, “passate nell’angoscia più totale”, Roberta Radici viene scarcerata e mentre firma le carte chiede quando può vedere il marito. “Potrà vedere suo marito martedì, dopo l’autopsia” è “letteralmente il modo con cui hanno comunicato la morte a mia madre – riprende il racconto Rudra -. In fase processuale si è scoperto che mio padre, nell’ora in cui è stata interrogata mia madre sulle sue patologie, era già stato dichiarato morto”.

Da qui inizia la storia giudiziaria. Nel 209 si aprono due filoni: per omicidio volontario a carico di ignoti (“archiviato, ma il pm già all’inizio ci aveva detto che ‘ci saranno indagini a 360°, ma non assicuro che troveremo un colpevole‘, frase inquietante se pronunciata dal titolare delle indagini”) e omissione di soccorso a carico di un agente di polizia penitenziaria (nel 2015 condannato in cassazione a nove mesi).

“Il primo medico legale di parte davanti a mia madre, ex moglie e avvocati d’ufficio chiede le motivazioni della morte. Mia padre pensa a un pestaggio andato oltre le intenzioni. ‘No signora – risponde il medico, questi colpi sono stati dati per uccidere, è stato picchiato con tecniche militari che mirano a lesionare gli organi interni senza lasciare lesioni esterne‘. Presenta quattro emorragie, fegato e milza spappolate, costole rotte, danni alla milza. Perizia ribadita dal medico legale della procura nella relazione preliminare, nella quale scrive di ‘lesioni viscerali di indubbia natura traumatica‘.

Eppure, “nella stesura definitiva della procura, si parla di morte avvenuta per aneurisma che ha provocato emorragia, giustificata dal massaggio cardiaco. Una cosa eccezionale dal punto di vista medico scientifico, capita nello 0,2% dei casi mondiali”. E non è l’unico aspetto ‘dubbio’: “Durante il dibattimento di secondo grado, si scopre che la foto utilizzata per evidenziare l’aneurisma era di repertorio, non riconducibile a mio padre. Il processo va avanti, c’è la condanna in cassazione, anche se l’aneurisma non è mai stato trovato”.

Tutto ciò l’ha portato a presentare la richiesta di riapertura del caso. “Con tre nuove prove: dalle indagini mediche che ho fatto eseguire, è emersa la concomitanza della lacerazione al fegato con l’emorragia celebrale: non poteva quindi essere legata al massaggio cardiaco. Può derivare da due cause: o rottura aneurisma o colpi violenti. Il secondo punto è che manca una parte ampia di cervello: è una prova del reato, ci è dato pensare che ci fosse qualcosa ma non è dato saperlo. E poi lo sversamento del sangue a carico del fegato è stato trovato nel basso addome, è come se il massaggio cardiaco fosse stato fatto mentre era in piedi. I detenuti l’hanno detto che ha chiesto più volte aiuto, è stato lasciato morire dissanguato come un cane”.

I punti oscuri sono tanti. “Ho vestito i panni del medico, dell’avvocato, del procuratore e non mi arrenderò fino a quando non ci sarà verità e giustizia – incalza Rudra -. Su tutti i casi di violenza: ho lanciato una petizione su avaaz.org per aprire una commissione di inchiesta parlamentare. Ha raggiunto 18mila firme e manderò una lettera a tutti i parlamentari e al ministro della giustizia che vorrei far firmare anche a Patrizia, per tutti noi”.

Lei gli è accanto e sorride. “Oltre all’assonanza tra i comitati Verità per Aldro e verità per Aldo – interviene Patrizia Moretti -, mi colpì molto perché non avevo la consapevolezza che ho ora di quanto frequenti siano i pestaggi e le morti avvenuti per mano dello Stato. E pochi hanno ottenuto una condanna o semplice giustizia, quando dall’altra parte c’è chi gode di protezione. Potremmo avere fiducia nelle forze dell’ordine quando ci daranno garanzia di essere pulite, di non poter tornare in servizio regolarmente come è successo con Federico. Vorremmo un mondo sicuro opposto alla violenza”.

Non stiamo lottando contro lo Stato ma per lo Stato – ribadisce Valentina Calderone, direttrice dell’associazione A Buon Diritto -. Stanno facendo un servizio a tutti noi, sostituendosi alle istituzioni che per prime dovevano garantire l’incolumità.

“Siamo contro ogni violenza – prende il microfono Andrea Boldrini, presidente dell’associazione Federico Aldrovandi,  che lancia parole morto forti -. Anche perpetrata dall’esercito, mandato in Gad come fosse Belfast. Ci sono pervenute diverse denunce di ragazzi nigeriani che hanno subito violenze da parte dei militari durante le perquisizioni. La situazione sta diventando pericolosa e il nuovo ministero dell’interno non tranquillizza, chiedere più sicurezza non vuol dire chiedere più violenza, è il suo opposto”.

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