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14 Aprile 2018
Mostra fino al 24 giugno alla Pinacoteca Nazionale di Bologna

Il genio di Francesco Francia. Un orafo pittore nella Bologna Del Rinascimento

di Paola Forlani | 5 min

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Alla Pinacoteca Nazionale di Bologna, si è aperta, sino al 24 giugno 2018, la mostra “Il genio di Francesco Francia. Un orafo pittore nella Bologna del Rinascimento”.

La mostra prodotta dal Polo Museale Emilia Romagna – Pinacoteca Nazionale di Bologna, in collaborazione con il Museo Civico Medioevale e la Società di Santa Cecilia Amici della Pinacoteca di Bologna, mette in luce la ricchezza e la varietà della produzione di Francesco Raibolini detto il Francia (Zola Predosa (?) 1447 circa – Bologna 1517), ponendo a confronto le importanti pale d’altare della Pinacoteca con opere in bronzo e di oreficeria (Paci, bottoni da piviale, monete, medaglie, plachette) a lui, attribuite o appartenenti alla sua cerchia e con la grafica prodotta nell’ambito della sua bottega da Marcantonio.

Francesco Raibolini fu uno dei protagonisti dell’arte bolognese tra il ‘400 e il ‘500.

La sua attività segnò in modo significativo l’arte della stagione della signoria dei Bentivoglio, continuando anche, attraverso la sua fiorente bottega, dopo la caduta di questi ultimi, con l’arrivo nel 1506 di papa Giulio II e il passaggio della città allo Stato della Chiesa. Figlio dell’intagliatore falegname Marco Raibolini, si formò in primo luogo come orefice forse avendo come maestro Clemente di Peregrino Anselmi. Al 10 dicembre 1482 risale la sua immatricolazione presso l’Arte degli Orefici, e nel 1483 ne divenne Massaro, carica ribadita nel 1489, 1506, 1512, 1514.

La sua attività di orafo, esaltata dal Vasari, lo vide protagonista della Zecca di Bologna per la quale realizzò numerosi conii di monete, ma la sua bottega, come emerge dai documenti, produsse una grande varietà di manufatti, purtroppo in parte perduti, che comprendono paci, monete, medaglie, barde da cavallo, targoni, modelli per vetrate, miniature, gioielli, la cui esecuzione affiancò quella di affreschi e dipinti su tavola. Come orafo lavorò soprattutto per i Bentivoglio, ma anche per Ercole I d’Este, per Giovanni Sforza, per influenti famiglie bolognesi come ad esempio i Ringhieri e Feliciti, per la fabbrica di San Pietro e per il Governatore di Bologna.

Immatricolato nella Compagnia delle Quattro arti, (Guainai, Scudai e Pittori, Sellai e Spadai) il 23 dicembre 1503, Francesco si dedicò alla pittura sin dalla giovinezza, lavorando spesso per i medesimi committenti sopra indicati, per palazzi e chiese del territorio bolognese, oltre che per altre città italiane.

La sua attività di pittore, aggiornata sulle novità artistiche italiane, in particolare ferraresi, toscane, venete e lombarde, è caratterizzata da quella smaltata e dolce raffinatezza che gli venne già riconosciuta da Giorgio Vasari, che collocò il nostro artista insieme al Perugino in quel passaggio tra seconda e terza “maniera” moderna. Importanti dipinti, oggi in parte conservati presso la Pinacoteca, provengono dalla chiesa di Santa Maria della Misericordia, della Santissima Annunziata, dell’oratorio di San Girolamo di Miramonte. Dalle opere realizzate per il palazzo distrutto dei Bentivoglio rimane un frammento di affresco raffigurante Due volti maschili. Noti sono i suoi interventi nella cappella Bentivoglio della chiesa di San Giacomo Maggiore, nel ciclo di affreschi dell’oratorio di Santa Cecilia, sempre dei Bentivoglio, inoltre l’esecuzione della Madonna del terremoto per palazzo Pubblico, i cartoni per vetrate per la chiesa della Misericordia, l’attività in San Petronio e molti altri interventi che ne testimoniano il ruolo di protagonista in città.

Malgrado non sia documentata l’esecuzione da parte del Francia di incisioni su rame per la realizzazione di stampe, certamente questo tipo di produzione era presente nella sua bottega. Un ruolo centrale in questa lo ebbe Marcantonio Raimondi, indicato nelle fonti come suo allievo. A lui si devono numerosi bulini, parte dei quali connessi alle invenzioni con “favole all’antica” del maestro, derivate, se non direttamente da suoi disegni, da creazioni iconografiche comuni, con ogni probabilità connesse a soggetti di “versi di medaglie” antiche. Queste raffigurazioni testimoniano l’interesse per l’antichità classica tipico del Rinascimento, che vide in Bologna una grande fioritura di studi di eruditi e collezionisti.

L’esposizione mette a confronto nella sezione del Rinascimento (sale 12-13) dipinti religiosi provenienti dalle chiese della città, con opere profane, quali il frammento di affresco dal palazzo distrutto dei Bentivoglio o la Lucrezia del Museo di Ca’ Ghironda. Le Paci della Pinacoteca attribuite all’artista dialogano con altri esemplari preziosi provenienti dalla Basilica di San Petronio e dal Museo dei Cappuccini.

Il bronzetto con la presunta Venere dell’Ashmolean Museum di Oxford costituisce un’importante proposta per un settore specifico della sua produzione, così come il bottone di Piviale del Museo Nazionale di Ravenna. Tra le monete e le medaglie esposte provenienti dal Museo Civico Archeologico di Bologna, attribuite a lui o al suo ambito o bottega, è presente il doppio ducato di Giulio II che una tradizione non confermata riferisce all’artista, e che si vuole sia stato gettato al popolo dal papa in occasione della sua entrata in città nel 1506.

Nella sale (7), a testimoniare la produzione grafica del Francia e della sua bottega, affascinante soprattutto nell’ambito della raffigurazione di soggetti profani, è esposto il disegno con l’Allegoria del silenzio sempre del museo Oxford, insieme a dieci bulini di Marcantonio Raimondi. La stampa a niello di Peregrino da Cesena costituiscono una testimonianza “ponte” fra l’arte dell’oreficeria e l’incisione.

La collocazione della mostra nel percorso del Rinascimento della Pinacoteca permette di leggere l’attività del Francia in stretta relazione con gli altri artisti attivi in città quali ad esempio Lorenzo Costa e Amico Aspertini, con i precedenti ferraresi di Ercole de’ Roberti e Francesco del Cossa, infine con la produzione successiva dei figli Giacomo e Giulio. Inevitabile il confronto con l’Estasi di santa Cecilia di Raffaello la quale, secondo il racconto romanzato di Giorgio Vasari (1550) – contestato dal bolognese Carlo Cesare Malvasia (1678) e messo in dubbio dalla critica recente – fu la causa della stessa morte del Francia. Secondo l’aretino, incaricato di esporre il dipinto sull’ altare della chiesa di San Giovanni in Monte, il Francia ne rimase talmente folgorato da morirne dopo pochi giorni. Ma le suggestioni più importanti del Vasari nelle Vite, come, già detto, è il voler affiancare, con estrema poesia, il Francia al Perugino, in grado entrambi di superare la <<maniera secca e cruda ne’ colori unita>>, tanto che <<i popoli nel vederla corsero come matti a quella bellezza nuova e più viva, parendo loro assolutamente che e’ non potesse mai far meglio>>.

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