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12 Marzo 2018
A Palazzo Ducale torna il cantore della bellezza eterna della città

John Ruskin a Venezia

di Paola Forlani | 6 min

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“Venezia giace ancora davanti ai nostri sguardi come era nel

Periodo finale della decadenza: un fantasma sulle sabbie del mare,

così debole, così silenziosa, così spoglia di tutto all’infuori della sua

bellezza che qualche volta quando ammiriamo il languido riflesso

nella laguna, ci chiediamo quasi fosse un miraggio quale sia

la città quale l’ombra. Vorrei tentare di tracciare le linee di questa

immagine prima che vada perduta per sempre, e di raccogliere,

per quanto mi sia possibile, il monito che proviene da ognuna delle

onde che battono inesorabili, simili ai rintocchi della campana

a morto, contro le Pietre di Venezia.”

John Ruskin. The Stones of Venice. 1851

 

Cosa sarebbe il mito di Venezia senza John Ruskin, cantore della bellezza eterna della città, tanto più affascinante ed eterna perché colta nella sua decadenza.

Personaggio centrale nel panorama artistico internazionale del XIX secolo, scrittore, pittore e critico d’arte, l’inglese John Ruskin (1819 – 1900) ebbe un legame fortissimo con la città lagunare, alla quale dedicò la sua opera letteraria più nota, “Le pietre di Venezia”: uno studio della sua architettura, sondata e descritta nei particolari più minuti, e un inno alla bellezza, all’unicità ma anche alla fragilità di questa città.

Ruskin, ammirato da Tolstoj e da Proust, capace di influenzare fortemente l’estetica del tempo con la sua ispirazione: torna a Palazzo Ducale, edificio emblematico che egli esplorò a lungo da angolazioni diverse: taccuini, acquarelli, rilievi architettonici, calchi di gesso, albumine platinotipi.

Ad ospitarlo, fino al 10 giugno 2018, è la sequenza di sale e loggiati tante volte raffigurati, ove la scenografia di Pier Luigi Pizzi dà risalto alle presenze architettoniche e scultoree della Venezia gotica e bizantina, medievale e anticlassica che egli tanto amava e che desiderava preservare dall’oblio (catalogo Marsilio).

Voluta da Gabriella Belli quale tributo alla conoscenza e al mito di Venezia, la mostra è curata da Anna Ottani Cavina: prima presentazione a tutto campo, in Italia, dell’opera di un artista che “ha valicato ogni confine in nome di una visione interdisciplinare, praticata quando il termine ancora non c’era”.

Pervaso da spirito religioso maturato nell’Inghilterra vittoriana, animato da una visione etica, che lo spinse ad agire sul piano sociale e politico con l’obiettivo utopico di una società organica e felice per tutti (tanto che Gandhi ne sarà incantato), strenuo oppositore del meccanicismo e del materialismo che vedeva diffondersi, Ruskin nel corso della sua vita opera e s’interroga sulle questioni sociali, sull’arte, sul paesaggio e sulla Natura; scrive di mineralogia e di botanica, così come di economia, architettura e restauro, preoccupato che le tecniche allora in uso finissero con il cancellare gli edifici medievali.

La mostra fa una scelta e, non potendo dare conto della complessità di Ruskin e del suo genio versatile in tanti diversi campi, si focalizza sull’artista, articolandosi attorno a cento sue opere che ne documentano la vocazione a tradurre in immagini la realtà, fissando su migliaia di fogli, a penna e acquarello, il suo instancabile tentativo di comprendere il mondo. Si tratta eccezionalmente di prestiti tutti internazionali – un grande merito dell’esposizione – considerato che i musei italiani non custodiscono sui lavori.

Migliaia sono le carte dipinte di Ruskin: disegni, acquarelli, quaderni, taccuini. Documentano un esercizio di ricognizione sulla natura e sull’architettura profondamente intellettuale e insieme emotivo, come lo spettatore può ammirare percorrendo le sale dell’esposizione.

Così lo sguardo colorato di Ruskin diventa una rivelazione per il pubblico italiano. Perché scriveva Kenneth Clark, “è lui il più grande acquarellista dell’età vittoriana”.

Un artista che molto ha contato per avere spalancato gli orizzonti del gusto, dal Gotico ai Primitivi, e creato una schiera di accoliti di quella “religione della bellezza” che la scrittura intendeva eternare, da Oscar Wilde a Walter Pater, da Henry James a Wirginia Woolf a Marcel Proust, a Gabriele D’Annunzio, a Roberto Longhi.

Monito per la salvezza di Venezia, la mostra vuole dunque essere una sfida a celebrare Jonh Ruskin come grande e singolare pittore, al di là del suo eclettismo e della sua stessa determinazione a privilegiare la parola scritta.

La città, l’architettura, i grandi maestri veneziani di cui riproduce le opere reinterpretandole, la tensione a esplorare la natura, fra curiosità e immaginazione, sono i leitmotive di questo incontro con i lavori di Ruskin, che da critico si battè per la modernità riconoscendo, in particolare, la forza rivoluzionaria della pittura di Turner, difeso contro i detrattori in vari scritti e nell’opera in più volumi “Modern Painters”.

L’esposizione ha voluto evocare questo incontro in tutta la sua poesia, dedicando uno spazio alle Venezie di Turner che come quelle di Ruskin, discendono dall’invenzione letteraria di Byron: “la mia Venezia come quella di Turner, è stata creata per noi in primo luogo da Byron”.

Venezia di perla e amatista, Venezie ambrate, di nebbia, Venezie dissolte e come spiaggiate ai margini di un universo inconoscibile, anticlassico.

Immagini di un’audacia formale che non ha precedenti, resa possibile dalle dissolvenze dell’acquarello e miracolosamente salvata da Turner anche nel grande formato, nell’impasto meno liquido e fluido dell’olio su tela.

A questa esplosione di spettacolare bravura di tornante fragore wagneriano, Ruskin risponde con timbro sommesso. Sottovoce, in cerca di una verità meno eloquente ed enfatica, spirituale e vicina alle cose.

La pittura di Ruskin non punta in realtà al sublime come quella di Turner, né all’astrazione tutto colore e luce: è descrittiva, analitica, finalizzata a immortalare la realtà; eppure nello studio del dato naturale o nella ossessiva resa dei particolari architettonici c’è assoluta visionarietà, convinto – proprio dai quadri del <<suo>> Turner – che il vero artista sia veggente, un profeta o, addirittura, uno <<scriba>> di Dio, capace cioè di cogliere e rappresentare la verità divina contenuta nella realtà naturale.

Oltre al viaggio in Italia e alla fascinazione per la natura – con una serie di acquarelli che privilegiano il tema della montagna e i paesaggi della penisola – il cuore dell’esposizione è comunque il rapporto dell’artista con Venezia.

Questo legame, coltivato nell’arco di una vita, a partire dal primo incontro a sedici anni, e alimentato in undici viaggi tra il 1835 e il 1888, è esplicitato sotto diversi punti di vista – Studi di nuvole, Tramonti, Pleniluni, Scorci della laguna, Studi dai grandi pittori veneziani: Carpaccio, Veronese, Tintoretto – ma verte essenzialmente sul tema cruciale della “natura gotica”, con la sua riscoperta e celebrazione: il momento più alto dell’arte e dell’architettura non solo dal punto di vista estetico ma anche morale.

Il testo di riferimento è il magnifico libro “The Stone of Venice” (1851 – 1853, 3 volumi), al quale si aggiungono le scenografiche tavole in folio degli “Examples of the Architecture of Venice”, pubblicate negli stessi anni, e “ St. Marki’s Rest”, nato come revisione de Le pietre di Venezia, dopo che egli aveva assistito alla demolizione di parti importanti della Basilica di San Marco, e divenuto guida della città “per i pochi viaggiatori che ancora hanno a cuore i suoi monumenti”.

La Venezia di Ruskin è paradigma, scoperta, ossessione: città per lui da amare per l’assoluta bellezza e da odiare per il suo decadentismo, in uno stringente rapporto tra architettura e società civile; Venezia da cantare e da salvare: Ruskin “Direttore di coscienze”, come lo definì Proust nel necrologio pubblicato a pochi giorni dalla sua morte (avvenuta il 27 gennaio 1900), lancia un monito ancora attuale.

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